Come la storiografia ha più volte rilevato, in Romagna il fascismo non seppe radicarsi, rimanendo una forza politica tutto sommato marginale e in gran parte dipendente dall’aiuto fornito dai camerati emiliani[1]. All’interno di questa condizione generale si staglia la peculiare situazione del comprensorio.forlivese-cesenate, che nel primissimo dopoguerra rappresentò un perfetto modello d’impermeabilità alla conquista fascista. Guardando alla storia di questo territorio un primo elemento che colpisce è la grande capacità di resistenza delle famiglie politiche popolari, che fin dai primi anni del secolo erano state le assolute protagoniste della vita politica locale; conseguentemente, ben poco fu lo spazio a disposizione dei nuovi soggetti politici per radicarsi e crescere nei consensi.
Guardando alla storia di questo territorio un primo elemento che colpisce è la grande capacità di resistenza delle famiglie politiche popolari, che fin dai primi anni del secolo erano state le assolute protagoniste della vita politica locale; conseguentemente, ben poco fu lo spazio a disposizione dei nuovi soggetti politici per radicarsi e crescere nei consensi. Lo si vede bene con il fascismo, che, a dispetto dell’origine forlivese di Benito Mussolini, rimase a lungo gracile e dipendente dall’intervento delle più organizzate alle squadre ravennati e bolognesi. Una seconda caratteristica, che sottolinea l’unicità del caso forlivese nell’ambito politico nazionale, è la tenuta dell’egemonia repubblicana, che si mantenne ben oltre le elezioni politiche del 1924 (contrassegnate dalla straordinaria sconfitta dei “Listoni”, sia a Forlì che a Cesena). Ma poiché i repubblicani potevano vantare purissimi titoli di patriottismo, per la tradizione garibaldina e per il fiero interventismo del tempo di guerra, anche il patrimonio di legittimità derivante dal ricordo della guerra, che altrove era stato usato dai fascisti per primeggiare all’interno del campo largo delle forze patriottiche e antisovversive, finì per riversarsi sul solo partito dell’edera. A maggior ragione perché il combattentismo forlivese, presieduto dalla carismatica figura di Aldo Spallicci, fin dall’inizio si legò al movimento repubblicano (e così sarebbe stato fino al 1926, quando il prefetto, dopo avere sciolto la locale sezione dell’Associazione nazionale combattenti, spedirà Spallicci al confino). Infine, è opportuno notare come il moltiplicarsi delle violenze nel dopoguerra non furono dettate, come avveniva nelle vicine province padane, dalla tensione sociale prodotta dalle lotte agrarie, come non ebbero quale loro fondamento la pretesa possibilità di scatenare un moto insurrezionale di tipo bolscevico. Nel cuore della Romagna lo scontro armato fu piuttosto una conseguenza del degradare dei rapporti tra partito socialista e partito repubblicano, ciascuno dei quali legato a un’idea esclusiva di rivoluzione. Nella riflessione condotta da entrambi i partiti la guerra aveva avuto il grande merito di rivelare lo stato marcescente dell’ordine istituzionale monarchico, mettendo con le spalle al muro il paese rispetto all’inevitabilità dello scontro finalizzato alla sua sostituzione. Se comune era la diagnosi, differente era la soluzione proposta. Da una parte v’erano i socialisti, convinti che occorresse instaurare un regime nel segno del leninismo, dall’altra v’erano i repubblicani, decisi ad abbattere la Corona per dare vita a un ordine di democrazia avanzata conforme agli insegnamenti mazziniani. Sebbene le due forze fossero giunte alla convinzione che non si potesse ormai più attendere oltre, la violenza da entrambe le parti espressa si mantenne uguale a quella espressa nell’anteguerra; per lo più si trattò quindi di zuffe, con frequente uso di coltelli e forconi. Qualche volta compariva pure una rivoltella. Tale relativa pacatezza spiega perché la violenza politica, a dispetto dell’elevato grado di politicizzazione e della diffusa propensione allo scontro fisico, ebbe qui esiti assai meno drammatici che nelle province emiliane (il numero delle spedizioni armate, delle devastazioni, dei feriti e dei morti, tra il 1919 e il 1922, rimase tra i più bassi del paese). Riassumendo, nei circondari di Forlì e Cesena il dopoguerra si configurò quale atto finale di una lunga disputa per l’egemonia politica, che prese la forma della resa dei conti tra il partito dominante in provincia (il socialista) e quello egemone nelle due principali città (il repubblicano). Ma come si era giunti a l finale redde rationem? In fondo si confrontavano due vecchi alleati, che avevano collaborato nell’Estrema parlamentare di opposizione e si erano ritrovati uniti nelle esperienze delle giunte popolari; due partiti che non avevano mai disdegnato l’unione delle forze, come nel caso della settimana rossa, nel giugno 1914, ogni qualvolta gli eventi avevano preso una piega insurrezionale. Il progressivo allontanamento era avvenuto sulla base dell’impossibile coesistenza d’interessi tra mezzadri e braccianti, rispettivamente organizzati dai repubblicani e dai socialisti; che a sua volta aveva alimentato la competizione tra contrapposti sistemi sindacali e cooperativi. Tuttavia, era stata soprattutto la differente posizione rispetto all’eventualità di una guerra a scavare il solco. Incrinati i rapporti ai tempi della guerra libica, la frattura si era infine prodotta con la scelta interventista. Il clima intossicato dei mesi successivi a Caporetto aveva fatto il resto, non solo perché aveva introdotto nel dibattito pubblico la tossica categoria del nemico interno, ma perché aveva spinto l’intera area democratica sulla strada della sciovinistica adesione alla linea dello jusquaboutismo. E all’indomani della vittoria i repubblicani, che potevano fregiarsi dell’eroismo dimostrato dai romagnoli, sancito dall’epopea dei Gialli del Calvario e dalle medaglie d’oro di Decio Raggi, Francesco Baracca e Fulcieri Paulucci di Calboli, avrebbero trattenuto l’imperativo politico dell’espulsione dalla comunità nazionale di tutte le forze apertamente antipatriottiche e disfattiste. Da qui il fervore antisocialista, aprioristicamente individuati come esaltatori della rotta di Caporetto (tra i repubblicani forlivesi era abituale raccontare che i socialisti avessero festeggiato quel disastro con una mangiata di bigoli). Sul versante opposto, nel frattempo, i socialisti assolutizzavano la condanna dell’immane strage proletaria, realizzata ad esclusivo vantaggio dell’imperialismo borghese e quindi scevra da qualsivoglia sacralità. Molto significativo appare quindi il fatto che la prima vittima civile del dopoguerra sia stata forlivese, quale prodotto – non si sa bene se l’ultimo o il primo – del feroce scontro ideologico di cui si è appena detto: il socialista Ugo Gazzoni, che morì per le percosse subite in occasione dei festeggiamenti indetti per la firma dell’armistizio. A dispetto del suo valore esemplare, questo terribile evento di sangue rimase però un fatto isolato: la contesa sulla piazza forlivese-cesenate assunse infatti i tratti della sfida dimostrativa e dello scontro simbolico (con sottrazioni di bandiere, sfide tra opposte fanfare, ecc.). Abituati alla politica, fatta anche di compromessi raggiunti nelle aule del consiglio comunale o nelle stanze ospitanti un qualche arbitrato sindacale, i vertici di entrambi i partiti evitarono infatti di dare un seguito concreto, magari attraverso la predisposizione di squadre armate, alle infinite schermaglie dialettiche. Anche se guardiamo ai dati elettorali, quel che colpisce della realtà forlivese e cesenate è la stabilità della mappa geopolitica: ad eccezione di Meldola e Teodorano, entrambi passati dalla prevalenza repubblicana a quella socialista, nel dopoguerra nulla infatti mutò. Si confermò il dominio repubblicano nelle città di Forlì e Cesena, così come nella corona di cittadine limitrofe; allo stesso modo, i socialisti rimasero egemoni nei centri della campagna e della provincia marittima. A dare un po’ di vivacità al quadro politico fu soprattutto il Partito Popolare Italiano. Guidato da un gruppo dirigente abile e capace di adattarsi alle diverse situazioni, come dimostra il caso di Sarsina, dove i cattolici accettarono di entrare in lista con gli odiati repubblicani, il Partito Popolare assunse in genere posture più conservatrici quando si presentava nei piccoli centri; al contrario, quando si presentava nelle principali città, contraddistinte dalla più strutturata presenza dei partiti di massa come dalla più ampia diffusione dell’anticlericalismo, il partito solitamente si dava programmi più progressisti e si dotava di una condotta maggiormente improntata all’intransigentismo. Con pochi risultati, dal momento che a Cesena, dove pure è nata la fortunata esperienza democratico-cristiana di Eligio Cacciaguerra, il partito fallì completamente la prova amministrativa; così come a Forlì, dove non ottenne che un misero 2%. C’era del resto assai poco da fare. Nei due grandi poli urbani del comprensorio forlivese-cesenate continuavano a dominare, con percentuali che superavano il 60%, alcuni dei pesi massimi del repubblicanesimo nazionale: da Giuseppe Bellini a Giuseppe Gaudenzi, da Ubaldo Comandini a Vincenzo Angeli e Cino Macrelli. Qui il controllo del mondo mazziniano sul voto popolare era tale da potere compiere, senza paura di particolari ripercussioni, atti di puro autolesionismo: come quando, nell’ottobre 1919, Giuseppe Bellini, dal 1915 sindaco di Forlì e presidente della Deputazione provinciale, venne espulso dal partito per l’accettazione della nomina a Senatore del Regno (quindi per essere contravvenuto al precetto anti monarchico del partito). La defenestrazione di Bellini favorì l’ascesa di Giuseppe Gaudenzi, che non sarebbe però riuscito ad imporsi quale vero dominus della politica locale. In particolare, gli sarà frequentemente rimproverato il timido interventismo del 1914, così come il granitico antifascismo e la salda convinzione della necessità, nell’ambito della battaglia per l’abbattimento del doppio potere clerical-monarchico, di un’alleanza tattica con i socialisti. All’apparenza simile è la situazione a Cesena. Come nel capoluogo di provincia, anche nell’antica città dei Malatesta il potere era saldamente detenuto dagli esponenti repubblicani. Anche Vincenzo Angeli detenne per oltre un decennio la poltrona di sindaco, il vero capo del partito locale era da considerare Ubaldo Comandini, deputato di lungo corso e grande influenza. Quel che differenziava le due città era piuttosto l’atteggiamento nei confronti del fascismo, radicalmente rigettato dai forlivesi e invece accolto con simpatia dai cesenati. Sino ai primi del 1921, in ogni caso, nella provincia non vi furono camicie nere; ma di fascismo si parlò tanto, anche perché la narrazione delle imprese compiute dai vari Balbo e Arpinati stimolava la discussione attorno a punti di grande importanza: l’uso della violenza, la presunta etero-direzione del movimento mussoliniano, la categorizzazione ideologica e, soprattutto, la possibilità di guardare ai fascisti come possibili alleati nel processo di instaurazione della forma repubblicana dello Stato. Alla base del partito repubblicano piaceva del resto molto il Mussolini anticlericale, così come era molto amata la mitologia patriottico-legionaria di cui si ammantava il fascismo. Dall’altro lato stava la generale antipatia per Mussolini, di cui si temeva, come conseguenza del più volte confessato agnosticismo, l’intenzione di orientare il movimento in senso cattolico-tradizionalista. A rafforzare il tendenziale antifascismo repubblicano stava infine la radicata convinzione, diffusa presso molti mazziniani, che esistesse una trama comune di sinistra, che affratellava, nel nome del progresso, agli antichi compagni socialisti. Nei confronti del fascismo i cattolici manterranno invece una posizione cauta e attendista, facendo sapere – attraverso Il Momento – che, pur non potendo che condannare l’uso fascista della violenza prevaricatrice, non si sarebbero opposti a una seria operazione di contenimento del materialismo ateo bolscevico. All’interno di questo particolarissimo contesto politico postbellico, la violenza, malgrado il precocissimo omicidio Gazzoni, non sembra quindi avere alcuna vera rilevanza. Per oltre un anno e mezzo non si registrarono infatti episodi significativi. Gli stessi moti per il caro-viveri dell’estate 1919, affrontati con grande intelligenza dalla giunta comunale, a Forlì non produssero che lievi feriti. Non così avvenne a Cesena, dove nel giro di poche settimane si registrarono due morti. Il 14 aprile 1920 due fratelli repubblicani probabilmente al culmine di una lunga faida familiare, uccisero il socialista Emilio Baiardi; seguì poi il 27 giugno 1920 l’uccisione, per mano di un anarchico esaltato, l’uccisione dell’agente Gennaro Gigli. Per vedere prodursi anche nel Forlivese-Cesenate una vera dinamica di violenza politica, con scontri in grado di provocare feriti e morti, occorre attendere la primavera del 1921. Il primo episodio è quello di Arpineto di Civitella, dove il 17 aprile venne ucciso il repubblicano Antonio Fabbri. L’evento ebbe una portata dirompente, che fece saltare le fragilissime regole d’ingaggio che avevano regolato la coesistenza tra famiglie politiche: a Forlimpopoli, il 28 agosto 1921, si scatenò quindi una vera e propria battaglia urbana, che lasciò sul terreno due repubblicani e un comunista, in gravi condizioni furono poi ricoverate anche una decina di persone. A cosa è dovuta questa improvvisa esplosione di violenza? Così strana, specie se si considera la relativa tranquillità fin lì dimostrata dal territorio? Senza dubbio un ruolo attivo ebbe la formazione dei fasci di Cesena e Forlì (nel tardo inverno 1921), così come la contestuale organizzazione della federazione romagnola del neonato Partito Comunista d’Italia (guidata dagli agguerritissimi Nicola Bombacci, Gastone Sozzi e Antonio Graziadei). La presenza di questi nuovi competitori sul mercato politico locale, entrambi contraddistinti da forte aggressività e capacità di attrazione dell’elemento giovanile, contribuì alla radicalizzazione del quadro generale. Non è un caso che, proprio prendendo spunto dalle forme di lotta politica adottate da fascisti e comunisti, nelle stesse settimane si siano formate, sull’onda emotiva prodotta dai fatti di Arpineto e all’insaputa della direzione nazionale del partito, le cosiddette Avanguardie repubblicane. Milizie armate di auto-difesa, guidate dal forlivese Mario Santarelli, il gruppo non nascondeva la simpatia nei confronti del fascismo, di cui avrebbe apertamente ricercato la collaborazione. Sarà quindi l’avvitarsi della competizione politica nella logica della vendetta e della rappresaglia ad aprire, a partire dalla primavera del 1922, inaspettati spazi di agibilità per gli ultra minoritari fascisti locali; i quali, non possedendo la forza per proporsi quali protagonisti delle azioni, in genere funsero da teste di ponte in grado di preparare, giustificare e supportare le sempre più frequenti spedizioni squadriste in arrivo da Bologna, Ravenna e Ferrara. Appoggiandosi alla prima incursione dello squadrismo ravennate contro le sedi rosse (gli assalti di Pievequinta e Ospedaletto, il 10 gennaio 1922), nonché all’agguato mortale contro il capo-lega Domenico Piolanti (avvenuto a Civitella, il 29 giugno 1922), passando per l’immediata rappresaglia social-comunista, che condusse all’omicidio del segretario del PNF bolognese Learco Montanari (avvenuto a Cesenatico, il 27 luglio 1922), il fascismo si sarebbe incuneato nel territorio forlivese e cesenate, conquistando il potere più in ragione della confusione esistente tra le fila avversarie che per una sopraggiunta predominanza. Il momento simbolicamente più rilevate di tale processo, al tempo stesso pure rivelatore delle dimensioni effettive raggiunte dal fascismo locale, sarebbe stato l’occupazione del Comune di Sogliano, il 19 agosto 1922. Il controllo della provincia i fascisti lo avrebbero ottenuto solo in virtù della marcia su Roma. Solo allora, con la defenestrazione coatta delle amministrazioni repubblicane di Forlì (30 ottobre 1922) e di Cesena (31 ottobre 1922), si poté affermare che l’anomala situazione del Forlivese-Cesenate era stata recuperata alla normalità nazionale.