L’intera memorialistica fascista individua in Bologna, nella particolare situazione esistente tra la fine del 1920 e l’inizio del 1921, l’epicentro della grande reazione squadrista, la quale, passando per fasi successive, avrebbe poi condotto alla conquista delle istituzioni da parte del fascismo. Se Milano rappresenta la culla del fascismo mussoliniano, da intendere quale movimento radicato all’interno di un’area politica ancora in via di definizione, Bologna è il punto di raccolta di un fenomeno politico più concreto, del tutto consapevole della necessità di usare la violenza per difendere, oltre che gli ideali della patria messa in pericolo dai sovversivi, anche i minacciati interessi della borghesia agraria e urbana. Non è quindi un caso che proprio a Bologna, con gli incidenti provocati in occasione dell’insediamento dell’amministrazione socialista (21 novembre 1921), si apra la stagione dello squadrismo, della guerra civile e della chiara sfida al principio del monopolio statale della forza. Ma perché proprio Bologna? Per rispondere a questa domanda occorre anzitutto ricordare come il capoluogo felsineo fosse una città particolare, molto ben definita dal suo ruolo di fondamentale centro organizzatore di reti e servizi[1]. Tale primato si era fortemente accentuato nei decenni successivi all’unità nazionale, in particolare con l’individuazione dello scalo ferroviario quale perno del sistema infrastrutturale nazionale; la ricca agricoltura del suo territorio, affiancata da un vivacissimo tessuto commerciale e industriale, aveva fatto il resto, contribuendo a consolidare la percezione dell’esistenza di un netto distacco tra lo status urbano di Bologna e quello delle altre città della regione. La presenza dell’antico ateneo, frequentato da migliaia di studenti provenienti da tutto il paese, consacrava infine il senso di superiorità e di differenza. Occorre tenere presente queste caratteristiche di fondo per approcciare il tema dell’affermazione fascista a Bologna; e questo perché l’accelerazione prodottasi nell’autunno del 1920, con l’improvvisa e dilagante affermazione fascista, fu in gran parte determinata dal sentimento di panico rispetto alla prospettiva, che l’intensità delle lotte agrarie ed elettorali avevano improvvisamente fatto sperimentare, di un assoggettamento della città al contado. L’urgenza ha molto a che fare con l’inatteso: lo spettro della sovversione dell’ordine sociale non aveva infatti a Bologna una storia pregressa; mai prima di allora i ceti borghesi urbani avevano infatti temuto di perdere la propria primazia. Le ragioni di tale senso sicurezza, ora smarrito, erano molteplici. Da una parte v’era la particolare natura del socialismo cittadino, che, in ragione dell’ampia stratificazione sociale, si era sviluppato secondo linee fortemente riformiste, portate alla ricerca dell’accordo con le forze della democrazia laica e massonica[2]. Dall’altra, stava la forza e il numero della piccola e media borghesia, impiegatizia e commerciale, il cui voto per lungo tempo aveva determinato la tenuta politica dei vari raggruppamenti liberali. V’era infine la natura della grande proprietà fondiaria, residente in città e spesso di origine aristocratica, la quale, abituata ad adottare un approccio moderato rispetto ai conflitti di lavoro, aveva in un certo senso usato la propria grande ricchezza in funzione sociale di ammortizzatore della conflittualità[3]. L’immobilità di tale rapporto iniziò a vacillare già sul finire dell’età giolittiana, come conseguenza dell’attrazione esercitata della città sui ceti rurali e del conseguente loro stabilirsi ai margini dell’abitato. Poi giunse il conflitto mondiale, che moltiplicò – per le occasioni di lavoro, connesse alle tante attività industriali – la forza centripeta del capoluogo[4]. All’uscita dalla guerra, come la durezza delle vertenze – quelle che riguardavano i rifornimenti di viveri e lo spaccio dei generi di prima necessità, per non parlare delle emergenze abitative – lasciavano chiaramente intravedere, il tradizionale volto di Bologna era ormai nulla più che un ricordo. A dispetto della buona prova offerta negli anni della mobilitazione bellica, il successo socialista sul Comune non poteva quindi essere accettato: la bandiera rossa su Palazzo d’Accursio era uno schiaffo in pieno volto per la città, che all’interno del nucleo storico urbano rimaneva profondamente borghese e patriottica. Gli avvenimenti del 21 novembre 1920 furono quindi come una chiamata alle armi, a cui la città avrebbe risposto subito in modo massiccio[5]. Si aprì allora una fase nuova, caratterizzata dalla violenza e dalla sopraffazione; una fase che, come mostrato dalla ricerca sulle fonti, registra il sovrapporsi di tre fenomeni. Il primo di questi è da considerare la conflittualità prodotta dalla vertenza agraria e dalla lotta per l’approvazione e l’applicazione del cosiddetto concordato Paglia-Calda, firmato il 25 ottobre del 1920 da Calisto Paglia, presidente degli agrari, e Alberto Calda, legale della Federterra, alla fine di una stagione di lotte contadine. Il concordato, che prevedeva un riparto più favorevole ai mezzadri e migliori tariffe per i braccianti, fu subito rigettato dai fascisti di Leandro Arpinati, che il giorno stesso della firma dimostrarono armati nei comuni di San Lazzaro e Ozzano, sequestrando alcune bandiere rosse dalle locali case del popolo e, una volta tornati a Bologna, bruciandole in via Indipendenza. Il tutto condito da numerosi colpi di rivoltella, sparati per aria senza che la polizia intervenisse. La cronaca di quelle settimane produce la sensazione che ci fosse una generale sottovalutazione di quel che stava accadendo, soprattutto della rapida trasformazione della politica prodotta dall’azione delle squadracce. Lo stesso ritardo dimostrano i liberali e i conservatori, che a lungo credettero di potersi servire – controllandola – della violenza fascista. Nonostante tutto il travaglio necessario per ottenerlo, il concordato Paglia-Calda visse di vita assai grama: generalmente disatteso, il 30 luglio 1923 fu definitivamente cancellato dal prefetto. Il secondo fenomeno che produsse l’impennarsi dei tassi di violenza politica nel Bolognese è rappresentato dal radicalizzarsi del campo socialista, tentato dalla prospettiva insurrezionale prodotta dalla fascinazione per la Rivoluzione d’Ottobre in Russia. Infine, un ruolo significativo, che ostacolava i processi di normalizzazione dei rapporti sociali, ebbe la vicinanza temporale rispetto alla fine della Prima guerra mondiale, così come l’insofferenza e la frustrazione prodotta dagli esiti degli accordi di pace a Versailles. Per ricostruire un quadro completo dei fenomeni violenti, attivi nel territorio bolognese dei primi anni Venti, fondamentali rimangono i quotidiani. A partire da Il Resto del Carlino, che allora rappresentava la voce del blocco liberale conservatore e decise di schierarsi apertamente con il fascismo solo quando Nello Quilici sostituì alla direzione Mario Missiroli. Poi occorre seguire con attenzione le notizie offerte dal socialista La Squilla, integrate dalla pagina bolognese dell’Avanti!, nonché dal cattolico l’Avvenire d’Italia, dal fascista l’Assalto, dal nazionalista La Battaglia, dal liberale Il Progresso” e dal democratico-repubblicano Il Giornale del Mattino. Fondamentale risulta essere lo spoglio della ricca memorialistica[6], così come l’analisi dei fondi archivistici: quelli più soliti da frequentare, come quelli depositati presso l’Archivio di Stato di Bologna o presso l’Archivio Centrale dello Stato, e quelli meno conosciuti, come, ad esempio i fondi della Federazione delle cooperative (che conserva una fitta relazioni sulle violenze subite dal mondo cooperativo bolognese). L’incrocio di tali fonti permette di allargare lo sguardo dalla città alla campagna, evidenziando come l’affermazione del fascismo proceda in parallelo alla crisi del movimento operaio e socialcomunista. In estrema sintesi, la storia sociale e politica del territorio bolognese si qualifica per una netta distinzione tra i periodi. In una prima fase, che s’estende tra la proclamazione dell’armistizio all’autunno del 1920, lo scontro riguarda e contrappone socialisti, popolari, nazionalisti e liberali. Il tutto reso ancora più instabile dall’intervento spesso confuso e parziale delle forze dell’ordine, autrici di un buon numero di eccidi e brutalità gratuite (è il caso soprattutto dell’eccidio di Decima di S. Giovanni in Persiceto, dove il 5 aprile 1920, a seguito di incidenti durante un comizio della Vecchia Camera del Lavoro di ispirazione anarchica, furono uccise otto persone). Durante questo periodo anche la modalità dello scontro politico violento appare “usuale”, non particolarmente differente dalla violenza espressa nel periodo precedente la guerra, con provocazioni e prese in giro che spesso degeneravano in colluttazioni. Poiché le armi erano maggiormente presenti, per l’abitudine di molti reduci di portarsi a casa parte del materiale posseduto da coscritti, sempre più spesso questi scontri, oltre che con coltelli e bastoni, si combatterono utilizzano rivoltelle e bombe a mano. Nello scorrere le cronache dell’epoca un altro dato che colpisce è la presenza assidua, tra i protagonisti delle zuffe, di molti giovanissimi. Anzi, la fascia d’età compresa tra i 17 e 23 anni è assoluta protagonista della violenza espressa in quegli anni nel Bolognese. Si tratta di una violenza che si concentra all’interno delle mura cittadine, con scontri che coinvolgono appartenenti al movimento operaio e forze dell’ordine. Ad accendere la conflittualità sono poi le situazioni elettorali, amministrative e politiche, in occasione delle quali gruppi di socialisti trovavano modo di azzuffarsi con drappelli di liberali e di popolari. Nella grande maggioranza dei casi, tranne quando scendevano in campo i nazionalisti, già propensi ad applicare le dinamiche di guerra alla competizione politica, il tipo di scontro rimaneva “tradizionale” (pugilati, bastonate e qualche sbrego da lama). A indebolire il fronte socialista e rivoluzionario, all’apparenza imbattibile per numero e risolutezza, era però la profonda lacerazione interna, che contrapponeva l’ala filosovietica – che avrebbe poi dato vita al PCd’I – a quella socialista rivoluzionaria e a quella riformista. Anche tale lotta tra fazioni contribuì a non fare capire quel che stava accadendo nel bolognese; in particolare, non consentì di comprendere tutta la pericolosità della strada – quella dell’autodifesa, incardinata sulla decisione di usare la forza paramilitare – imboccata dalla borghesia bolognese. All’indomani dell’eccidio di Decima, infatti, fu fondata l’Associazione di difesa sociale: il primo nucleo organizzato di squadristi, non a caso in gran parte poi confluita nel fascismo di Arpinati. Dell’importanza dell’assalto a palazzo d’Accursio, e in generale dell’intero mese di novembre, quale vero e proprio spartiacque, già si è detto. Bologna diviene il laboratorio di sperimentazione del fascismo, dove applicare innovative strategie di intimidazione e conquista (non a caso Mussolini definirà la città il «quadrivio della rivoluzione fascista»). In particolare, fu messa a punto allora un’efficacissima storytelling dei fatti, che fu assunta come assolutamente vera dall’intera opinione pubblica nazionale: l’intera sinistra, accusata della responsabilità di avere dato avvio alla strage, fu schiacciata dall’immagine di irresponsabilità, incapacità e non credibilità. Anche per effetto di quest’immagine degli eventi distorta, che paralizzò la stessa capacità di reazione, il movimento socialista cedette di schianto, accettando l’instaurazione di un commissario straordinario in Comune, l’arresto dei suoi principali dirigenti e l’attacco fascista delle sue strutture associative (il 25 gennaio 1921 fu anche distrutta la Camera del Lavoro). A leggere la stampa dell’epoca quel che prima di ogni altra cosa colpisce è la rapidità con cui si attua lo stravolgimento dello stato d’animo dell’opinione pubblica cittadina: da una profonda prostrazione rispetto alla protervia socialista, con frequenti appelli alle autorità statali e una scia di continue lamentele, improvvisamente si passa all’esaltazione patriottica e alla feroce baldanza. A guidare la carica della borghesia urbana, che accorre in massa a iscriversi al fascio, è Il Resto del Carlino di Quilici. Se in precedenza ci si appellava alle forze dell’ordine, perché mantenessero l’ordine attraverso il disarmo di tutte le parti, ora quelle stesse forze dell’ordine si criticano se osano non affiancarsi ai fascisti. A partire da questo momento la violenza fascista si espresse senza freni, utilizzando tutte le varie modalità di attacco alle persone e alle strutture del movimento socialista e popolare: agguati a sindaci ed amministratori, avvicinati con qualche domanda e poi bastonati; attacco e devastazione di luoghi e simboli del movimento operaio, come le case del popolo, le cooperative e le camere del lavoro. Anche la triste contabilità dei ferimenti e delle morti in questa seconda fase s’impenna: se in quasi due anni, dal gennaio 1919 al novembre 1920, i morti legati a ragioni di natura politica erano stati 22, nei tredici mesi compresi tra il novembre 1920 e il dicembre 1921 si ebbero 29 uccisioni. Anche le violenze generiche fecero lo stesso: dai 45 episodi del 1920 ai 196 del 1921. Ancor più nero l’anno successivo, con l’apice della devastazione raggiunto quando migliaia di fascisti occuparono, per una settimana e avendo come obiettivo quello di imporre la rimozione del prefetto Mori, la città di Bologna fu occupata da migliaia di fascisti. All’indomani della marcia su Roma, durante la quale la città fu nuovamente occupata dai fascisti, non solo furono sciolte tutte le amministrazioni socialiste sopravvissute, ma fu dato l’assalto al simbolo stesso della resistenza: Molinella. Per circa due mesi le squadre di Augusto Regazzi scorrazzarono sul territorio di quel comune, seminando il terrore e sfruttando ogni pretesto per bastonare i passanti. Bologna la rossa non esisteva ormai più.
Federico Chiaricati e Giuliana Bertagnoni.