Città di medie dimensioni, posta sulla via Emilia e al centro di un ricco territorio agrario, Imola costituisce un caso storico singolare, capace di differenziarsi sia dalle vicende della vicina Romagna che dalle dinamiche della più grande città di Bologna[1]. Animata da una consistente piccola borghesia, a sua volta legata a un buon numero di famiglie borghesi proprietarie, la vita della cittadina era vivificata dalla presenza di un attivo e numeroso ceto artigianale, storicamente organizzatosi nel nome di Andrea Costa[2]. Fuori dalle mura urbane il territorio si sviluppava secondo le linee tradizionali della piantata a filare di viti maritate agli aceri che, a delimitazione dei seminativi, copriva più dei tre quarti della superficie coltivata. Nelle terre basse, limitrofe alle province di Ravenna e di Ferrara, la mezzadria, ancora prevalente ma distribuita su più ampie proprietà e unità poderali, concedeva spazio alla conduzione in economia delle imprese capitalistiche, tipiche del basso Bolognese, per mezzo del lavoro di un precariato sovrabbondante. Nella storia politica dell’Imolese una frattura fu senza dubbio costituita dalla scelta interventista del 1915. Fu infatti allora che si bloccò lo slancio democratico, fin lì caratteristico dell’evoluzione politica imolese, e, a partire dalla definitiva adesione del socialismo locale al radicalismo, s’interruppe la pratica di reciproco riconoscimento che fin lì aveva contraddistinto la lotta politica[3]. La partecipazione alla guerra ebbe anche l’effetto di sconvolgere l’assetto sociale stratificatosi dal tempo dell’unità nazionale, aprendo una crisi il cui sviluppo, con l’accelerazione degli squilibri preesistenti, avrebbe segnato la fase successiva. Non a caso Imola, dove la disoccupazione mordeva con particolare vigore, costituì uno degli epicentri del moto annonario dell’estate 1919; e dove la repressione s’accanì più violentemente (5 morti tra i dimostranti, con decine di feriti). La condizione di estrema precarietà, contraddistinta dalla forte sintonia tra anarchici e socialisti da una parte, e dal vigore della crescita – specialmente nella collina, incardinata sul centro di Fontanelice – del movimento cattolico[4], ebbe modo di confermarsi in occasione delle elezioni politiche del novembre 1919. Tra i deputati socialisti eletti nel collegio vi furono anche due imolesi: Antonio Graziadei e Anselmo Marabini[5]. Anche i popolari, con un terzo dei voti rispetto alla lista socialista, dimostrarono di essersi ben radicati nel comprensorio. Più silenziosamente, la misura del cambiamento avvenuto nel dopoguerra era data dall’ampio passaggio di proprietà agrarie: mentre i grandi proprietari che avevano fatto la storia agraria del mandamento, e ne avevano a lungo preservato l’equilibrio sociale, se andavano (Zappi, Grabinski, Zampieri, Pasolini, ecc.), una nuova classe di agguerriti agrari – affittuari, coltivatori diretti, professionisti arricchiti e attirati dall’investimento immobiliare, speculatori estranei all’economia rurale e digiuni di coscienza sindacale – s’insediava. Racchiusi in una stretta ottica corporativa, incapace di sollevarsi dai particolarismi personali, questi ultimi avrebbero rappresentato il nucleo duro del fascismo nell’imolese[6]. Che non ci fosse più spazio per la mediazione lo si sarebbe visto in occasione della vertenza agraria dell’estate 1920, quando alla durezza dell’atteggiamento dei proprietari si contrappose il già sperimentato metodo di lotta degli associati alla Federterra: boicottaggi, taglie e varie intimidazioni. Il punto più alto dell’offensiva socialista apparvero però le elezioni amministrative del settembre 1920. Tradizionalmente priva di un nucleo di notabili conservatori, e quindi incapace di offrire ai popolari un’esperienza di alleanza clerico-moderata in grado di fungere da punto di riferimento politico. Imola pareva destinata al trionfo socialista. E così fu: tutti i comuni del mandamento furono infatti vinti, con percentuali clamorose, quasi sempre superiori al 50%, dai candidati del partito di Bombacci. Ma le cose era in procinto di mutare, e anche rapidamente. Da Bologna il fascismo arrivò infatti a Imola, travolgendo ogni resistenza posta sulla via Emilia; e la stessa cosa fecero le squadre ferraresi, che, scendendo da Lavezzola per la via Selice, investirono con la loro potenza di fuoco tutti i centri della Bassa Imolese. Ma vediamo nel dettaglio come si espresse la violenza politica nel circondario imolese. La sensazione generale è che quest’ultima rinvii a una molteplicità di motivazioni, non sempre facilmente identificabili in quanto il più delle volte legate a un intricato conglomerato di fattori; tuttavia, semplificando e accettando qualche compromesso, è possibile evidenziare tre spinte principali. La prima è connessa alla tensione prodotta dal vorticoso incremento dei prezzi dei beni di consumo, avvenuto a ridosso della fine del conflitto e incrudelito dal forte aumento del tasso di disoccupazione. Quasi inevitabilmente la tensione finì per coagularsi in un feroce risentimento nei confronti dei cosiddetti “pescicani”, spesso molto superficialmente identificati nei semplici esercenti. A questo proposito è opportuno segnalare come siano state numerose, anche a Imola, le aggressioni a venditori al mercato. Fino ai veri e propri tumulti annonari del luglio 1919. Il più significativo di questi si ebbe il 2 luglio 1919, quando lo sciopero generale per l’introduzione di un calmiere degenerò in un vero e proprio moto cittadino, con tanto di assalti alle forze di polizia e saccheggio di alcune drogherie del centro cittadino. Il giorno dopo si scatenò la repressione: al termine di un comizio conclusivo, al defluire della folla, un gruppo di carabinieri esplose sulla folla oltre centoventi colpi di rivoltella. Alcuni di questi raggiunsero i dimostranti: cinque di loro rimasero uccisi sul selciato. L’episodio, che passerà agli onori della cronaca come l’eccidio di Imola, destò un profondo turbamento; tanto da innescare, in Romagna e nelle Marche, tutta una serie di tumulti, scioperi e requisizioni di merci. Il secondo motivo che possiamo rintracciare coincide con le forti tensioni generate dalla questione agraria (nel corso della quale ogni momento della campagna agricola, dal taglio del foraggio e del grano, fino alla raccolta delle pesche e dell’uva, si trasformò in un potenziale momento di scontro violento). In particolare, ad alimentare la tensione fu la contrapposizione tra le Fratellanze Coloniche, di orientamento cattolico, in grande maggioranza sostenute dai proprietari terrieri, e le leghe rosse affiliate alla Camera del Lavoro e alla Federterra. Emblematiche di tale fase, contraddistinta da una serie pressoché infinita di episodi, furono le uccisioni di Domenico Frontali e Arcangelo Solferini, colpiti l’uno a Codrignano e l’altro a Bubano (Mordano); così come il grave ferimento del camerale Giuffrida Poggiali, colpito da una fucilata a Piana di Santa Margherita (Fontanelice). Ancora più significativo, per la capacità posseduta di esemplificare il clima di tensione esistente nelle campagne del circondario, fu lo scontro armato verificatosi il 9 agosto 1920 a Medicina, nella frazione di Portonovo, quando quattro persone – un agente agrario, due crumiri e uno scioperante – furono uccise. Altre cinque rimasero gravemente ferite. La firma del patto Paglia-Calda, siglato il 25 ottobre 1920, parve per qualche tempo rasserenare gli animi; almeno fino a quando, incoraggiati dalla sempre più frequente presenza dei fascisti, i proprietari iniziarono a non osservare i patti da loro stessi firmati. Il terzo motivo del diffondersi della violenza nel circondario imolese è infine connesso all’entrata in scena dello squadrismo fascista, fino ai primi mesi del 1921 quasi totalmente estraneo al contesto locale. La sua penetrazione nel territorio Imolese è legata a una serie di raid, che avevano come obiettivo quello di strappare alcune località strategiche al controllo socialista al fine di trasformarle in “teste di ponte”; le quali avrebbero poi a loro volta permesso di ampliare il raggio di azione delle squadracce provenienti dal capoluogo. L’efficacia di tale strategia è facilmente verificabile, anche solo osservando gli atti violenti e notando come in essi si ripetano gli schemi d’azione. Per prima cosa i fascisti, spesso quelli delle località minori, s’incaricavano di provocare incidenti; poi, sfruttando le zuffe come un pretesto, dai centri maggiori partivano le squadre. Una volta giunti sul posto, queste spargevano il terrore fra gli abitanti, distruggendo le strutture socialiste e brutalizzandone i principali esponenti locali. Al termine dell’azione gli squadristi bruciavano, in un rito di purificazione dalla malattia bolscevica, le bandiere, i quadri e tutti gli oggetti richiamanti il credo socialista. Qualche tempo dopo, al momento dell’inaugurazione del gagliardetto del fascio di quella località, i fascisti tornavano in massa per sancire il suo definitivo passaggio all’interno dei confini del territorio da loro controllato. La manifestazione peculiare della pressione fascista sul territorio imolese fu dunque quella della spedizione punitiva. A partire dalla prima, quando, il 7 dicembre 1920, un centinaio di fascisti, giunti a bordo di tre camion e quattro automobili, raggiunsero Castel San Pietro. Dopo avere devastato la Camera del Lavoro, la Cooperativa Birocciai, la Lega Coloni e l’Ufficio di Collocamento, prima di assaltare il municipio, gli squadristi pestarono a sangue alcuni passanti. Pochi giorni dopo – il 12 dicembre 1920 – un analogo tentativo contro Imola fallì, bloccato dall’efficace mobilitazione dei suoi cittadini. Non fu però possibile fare altrettanto il 10 aprile 1921, quando una squadra di una cinquantina di fascisti bolognesi, prendendo a pretesto una colluttazione avvenuta tra alcuni giovanissimi simpatizzanti fascisti e un gruppo di giovani operai, entrò a Imola. Dopo aver marciato per le vie deserte della città, e bastonato alcuni antifascisti, il gruppo improvvisò una dimostrazione in piazza Vittorio Emanuele. Contemporaneamente, altre squadre compivano la stessa marcia, con tanto di comizio e bastonature, anche su Dozza, Medicina, Mordano, Sassoleone e Castel San Pietro. Benché non particolarmente violenta, rispetto almeno alle azioni che altrove i camerati organizzavano, la marcia sulle località del comprensorio di Imola servì, oltre che a ravvivare le simpatie per i fascisti, a deprimere ulteriormente la combattività dell’organizzazione socialista. Soprattutto, essa si rivelò determinante per realizzare la definitiva saldatura tra la Camera Agraria, costituita il 7 aprile 1921, dopo il distacco della sezione imolese dall’Agraria bolognese, e lo stesso fascismo. All’interno di questa categoria, della violenza portata contro i cittadini dei centri minori al fine di modificare gli assetti politici esistenti, vanno anche annoverate le spedizioni più chiaramente connotate dal loro valore dimostrativo. Come quella realizzata nella “frazione rossa” di Sasso Morelli; oppure l’occupazione delle sedi municipali di Castel Guelfo e di Casalfiumanese. Numerose furono pure le bastonarono di sindaci e amministratori, finalizzate a imporre loro le dimissioni (a questo proposito vanno ricordate le aggressioni ai danni di Andrea e di Anselmo Marabini, nonché nei confronti del sindaco di Imola Giulio Miceti). Nonostante il gran numero di azioni squadriste, così come l’ampia azione di intimidazione e impedimento della libera espressione del voto, le elezioni del maggio 1921 videro una sostanziale tenuta socialista nei seggi del circondario (a Castel San Pietro, Medicina, Ozzano, Dozza e Castel Guelfo la loro lista conservò infatti il primo posto). Si trattava di una dimostrazione di forza molto effimera. Dal momento che i fascisti imolesi avevano potuto agire liberamente, in alcun modo intralciati dalle forze dell’ordine, gli stessi finirono per considerarsi come pienamente legittimati a continuare nell’esercizio della violenza. Già pochi giorni dopo il voto, il 28 maggio 1921, un gruppo di fascisti devastò ad esempio la casa del popolo di Imola; e poco dopo, il 17 giugno 1921, dopo avere tentato di conquistare la locale Camera del lavoro, altri fascisti imposero l’esposizione del tricolore dal balcone del municipio. Il fatto però più grave fu però la spedizione punitiva organizzata per vendicare l’uccisione di Edgardo Gardi, impiegato della Camera Agraria che, il 3 luglio 1921, era caduto vittima di un proiettile vagante. La morte di Gardi, che i fascisti si affrettarono a descrivere come un martire fascista, offrì il pretesto per scatenare una vera e propria caccia all’uomo contro gli antifascisti. La sede del giornale libertario Sorgiamo! venne data alle fiamme, così come quella del sindacato anarchico Usi. Quando il sindaco di Imola Giulio Miceti si dimise (30 giugno 1921), seguito a ruota da tutti gli amministratori socialisti degli enti pubblici locali del comprensorio, il disarmo socialista si trasformò in rotta. Le violenze fasciste intanto non si fermavano. Il 13 luglio 1921, mentre eseguiva i lavori di trebbiatura sul fondo Colombara di San Prospero, fu ucciso da un colpo di pistola l’operaio ventenne Ugo Masrati; il 12 novembre 1921 la stessa sorte toccò al capolega socialista Domenico Bubani. Ma per assestare il colpo finale ai sovversivi imolesi gli squadristi scelsero, non a caso, in considerazione dell’altissimo valore simbolico della celebrazione, la festa del 1° maggio 1922. Quel giorno oltre un migliaio di squadristi, reclutati sull’intero territorio regionale, giunsero a Imola. Nonostante l’ampia forza a disposizione i fascisti furono però respinti. A quel punto, pieni di rabbia e di frustrazione, gli stessi si vendicarono lanciandosi in selvagge bastonature dei passanti. Il tutto durò parecchie ore, fino alla mezzanotte inoltrata. A Linaro, gli stessi fascisti spararono sui partecipanti alla festa: il bracciante Luigi Trombetti rimase ucciso da un colpo di pistola. Un po’ paradossalmente, se si considera l’avvenuto collasso dell’organizzazione socialista, lo sciopero generale legalitario del 2-3 agosto 1922 fece registrare nell’Imolese una buona adesione. Si trattò però del canto del cigno. Usando come pretesto la morte del giovane studente liceale Andrea Tabanelli, vicino agli ambienti fascisti, gli squadristi lanciarono una nuova rappresaglia. Le bastonature furono innumerevoli, e durante una di queste perse la vita il ferroviere anarchico Raffaele Virgulti. A fine estate il prefetto poteva dunque segnale come nulla fosse rimasto delle organizzazioni socialiste; anzi, il fascio era ormai talmente egemone a Imola da non potersi più considerare come uno strumento nelle mani della Camera Agraria. Una pagina nuova, radicalmente differente rispetto al passato, s’apriva per Imola e il suo circondario.
Simeone Del Prete