Per inquadrare correttamente il tema dell’avvento del fascismo a Modena è necessario tenere conto di una serie di peculiarità di più lungo periodo[1]. Tra queste, una delle principali è senza dubbio la forza delle sinistre, che nel cosiddetto “biennio rosso” raggiunse il suo culmine, sia dal punto di vista numerico che rispetto alla capacità di esercitare un controllo di tipo egemonico sul territorio[2]. Va poi tenuto in conto, nonostante la notevole presenza di militari in città, la relativa fragilità degli organismi periferici di controllo dell’ordine pubblico; una fragilità che è certo numerica, ma che riguarda soprattutto la palese incapacità di gestire le situazioni di forte tensione sociale. La violenza politica a Modena, che conoscerà il suo apice nella primavera del 1921, in coincidenza con l’attacco alle amministrazioni comunali “rosse”, non nacque però con il fascismo; e neppure rappresentò un esclusivo frutto dei processi di brutalizzazione legati al conflitto mondiale. Al contrario, essa affonda le sue radici nel disordine provocato, poco prima dell’intervento in guerra, dalla rottura dell’equilibrio tra liberalismo e movimento operaio[3]. A segnare un punto di svolta nella pratica della violenza politica a Modena furono quindi i tragici avvenimenti che accompagnarono lo sciopero generale, proclamato contro la guerra in Libia, del 27 settembre 1911. A Modena, come a Langhirano e a Piombino, la protesta finì infatti in tragedia. Nel capoluogo la forza pubblica, che sparò un centinaio di colpi di fucile contro i manifestanti, fece per fortuna solo parecchi feriti; a Nonantola ci scappò invece il morto e presso Bastiglia un carabiniere rischiò di essere gettato nel fiume Secchia. Tutti episodi che, come accadrà nel dopoguerra, testimoniano dell’incapacità delle forze dell’ordine di gestire le dinamiche dello scontro sociale. La guerra di Libia, e ancor più il confuso periodo della neutralità, sconvolse il quadro politico locale. La diversa interpretazione dell’ora produsse infatti la definitiva crisi della collaborazione fra radical-democratici e socialisti. Uguali dinamiche caratterizzarono l’importante centro di Carpi, dove la rottura politica fu accelerata dallo scontro sulle scelte da adottare per affrontare la grave crisi dell’industria del truciolo[4]. La fine della guerra ridiede forza al conflitto politico, riaccendendo i focolai di scontro che lo stato d’eccezione bellico aveva sopito. Soprattutto, il dopoguerra consegnava alla politica locale una forza all’apparenza egemone – il partito socialista – eppure percorsa da profonde fratture interne, che minandone la autorevolezza avrebbero determinato il rapido mutamento della situazione complessiva. A fronte della debolezza delle strutture del partito, che impediva al suo gruppo di rigente di venire riconosciuto quale guida dell’intero movimento, si rafforzò allora l’autorevolezza delle strutture sindacali. Come poteva essere del resto differente? Tra Camera del Lavoro unitaria e sindacalista gli iscritti erano infatti più di 72.000. Fu sulla base di tale imponente forza organizzata che il movimento socialista, di fatto guidato dai sindacati, affrontò i vari momenti di tensione (dai moti annonari alla vertenza agraria, fino all’occupazione delle fabbriche e alle ripercussioni dell’eccidio del 7 aprile 1920). Come avvenne anche altrove, a Modena la vera cesura fu rappresentata dalle elezioni amministrative dell’autunno 1920. Uscite duramente sconfitte dalla tornata elettorale del novembre 1919, le forze moderate e conservatrici, coalizzandosi in vista della rivincita, diedero vita all’associazione Ordine e Libertà. Supportato dalla Gazzetta dell’Emilia, il fronte antisocialista iniziò quindi un’attiva e martellante campagna elettorale. I risultati furono però deludenti: i socialisti conquistarono infatti 45 comuni su 46[5]. Per le forze un tempo egemoni era chiaro che bisognava mutare radicalmente strategia, e ciò apparve possibile quando sulla scena comparvero i fasci di combattimento. Quello di Modena, anzitutto[6]; ma anche quello di Carpi, che a lungo rimarrà il raggruppamento più attivo, violento e determinato[7]. La violenza diveniva poi la protagonista assoluta della vita politica locale: dopo il 20 gennaio 1921, tanto sistematica era diventata l’azione intimidatoria dei fascisti, divenne infatti impossibile convocare le sedute dei consigli comunali. Ma rivolgiamo la nostra attenzione alla violenza fascista, cercando di indagarne meglio i tempi, le forme e la funzione. La ricerca evidenzia il convergere, nel suo sviluppo, di tre fenomeni paralleli. Il primo è legato all’apparire di un movimento – quello mussoliniano, inizialmente animato da ex arditi e legionari fiumani – che faceva della violenza il proprio principale mezzo d’azione politica; il secondo è correlato all’incapacità della forza pubblica di mantenere l’ordine pubblico in situazioni di forte tensione; il terzo ha infine a che vedere con le divisioni e debolezze delle forze popolari (socialisti, sindacalisti e, in parte, popolari). Preliminarmente può anche essere notato come il meccanismo rivoluzione-reazione, a lungo proposto dalla storiografia sulle origini del fascismo come chiave interpretativa dell’affermazione fascista, appaia per Modena uno strumento debole. Gli anni del biennio 1919-1922 appaiono infatti contraddistinti da un continuo combinarsi e ricombinarsi del rosso e del nero, senza che una tinta prevalga mai nettamente sull’altra. Neppure la violenza fascista fu una reazione alle presunte prevaricazioni delle sinistre, quanto piuttosto un fenomeno complesso, intimamente legato alle vicende precedenti la Prima guerra mondiale. Era infatti allora, dopo lo spezzarsi dell’equilibrio stabilito in epoca giolittiana, che una parte della borghesia liberale, affiancata dagli ambienti del nascente nazionalismo, aveva iniziato a considerare il “contromondo rosso”, raccolto attorno alle Camere del Lavoro, come un’espressione antinazionale e sovversiva, sostanzialmente priva della legittimità necessaria per agire quale attore sulla scena politica. La Prima guerra mondiale, mostrando a questi stessi gruppi come la pace sociale potesse essere imposta con metodi coercitivi, avrebbe fatto il resto. Per seguire le vicende della provincia di Modena, mirando a ricostruire i principali snodi interpretativi, la ricerca si è preoccupata d’integrare l’analisi di fondi poco o per nulla esplorati (sia in Archivio di Stato di Modena che in Archivio Centrale dello Stato di Roma) con lo spoglio accurato delle fonti a stampa (a partire dalla Gazzetta dell’Emilia, continuando con periodici in grado di evidenziare la lettura data dai principali partiti politici: Il Frignano, Il Popolo, L’Operaio Cattolico La Voce Popolare, La Squilla, L’Avanti, Il domani, La Propaganda, La Bandiera Proletaria, La Valanga e Il Falco). L’incrocio di queste fonti pare evidenziare alcuni elementi, strettamente correlati al tema più generale della violenza politica e dell’avvento del fascismo. In primo luogo, l’analisi sottolinea una volta di più come, a fronte della sua forte consistenza, il movimento organizzato dei lavoratori presentasse alcune importanti debolezze. Anzitutto il netto prevalere delle istanze sindacali su quelle politiche (cosa che probabilmente ebbe un suo peso nell’impedire una corretta valutazione della pericolosità del nascente fenomeno fascista); poi, la profondità della frattura tra socialisti e sindacalisti, da una parte, e tra socialisti e forze del cattolicesimo democratico, dall’altra[8]. Infine, un ultimo ma importantissimo elemento da considerare è rappresentato dall’incapacità della forza pubblica di arginare i fenomeni di protesta (come è dimostrato dal fatto che, nel biennio 1920-1922, circa un terzo dei morti attribuibili a cause politiche sia stato provocato dall’agire sconsiderato della forza pubblica). Su questi elementi di fondo si innestò il primo fascismo, che nel Modenese fece molta fatica ad attecchire. I primi squadristi furono espressione di milieux che sembravano direttamente proiettati a Modena dalle trincee, così come da quella splendente “festa della rivoluzione” che fu l’impresa di D’Annunzio. Non stupisce allora come gli squadristi, oltre a mutuare tattiche e simbologie dall’arditismo, abbiano anche fatti proprie pratiche moralmente poco lecite, come l’abuso di alcol e di droghe (la diffusione di stupefacenti era a Modena particolarmente forte, oltre che negli ambienti della prostituzione, anche presso i cadetti della Scuola Militare). Dai nazionalisti fautori dell’impresa libica e dagli interventisti della Prima guerra mondiale, come pure dai sindacalisti rivoluzionari, i fascisti della “prima ora” derivarono invece la volontà di contendere e occupare fisicamente gli spazi del “nemico”, presidiando al contempo i propri luoghi di appartenenza (a Modena ravvisabili in piazza Grande, nel Municipio e nella Ghirlandina; ma anche nel “covo” del fascio di via Sant’Agata e nel caffè Nazionale sotto al portico del Collegio). Come nella vicina Bologna, il fascismo nacque immediatamente squadrista ed essenzialmente urbano; solo successivamente divenne agrario, estendendosi nelle campagne e nei centri rurali. Una parziale eccezione è però costituita dal fascio di Carpi, il quale, più direttamente legato allo squadrismo bolognese, si distinse subito, oltre che per un chiaro carattere classista, per la notevole capacità di proiezione al di là dei confini provinciali (andando soprattutto a colpire centri nel reggiano e nel mantovano). Guardando ai repertori d’azione degli squadristi, possiamo infine notare come inizialmente questi presero di mira gli esponenti delle sinistre; solo a partire dal 1922 inizieranno a colpire gli esponenti popolari (che nel frattempo avevano consolidato la loro presenza sociale ed elettorale in ampie zone dell’Appennino). Se si esamina il tipo di armamento in possesso degli squadristi, così come pure testimoniato dal numero che non fu mai molto elevato, appare difficile comprendere le ragioni della loro vittoria; soprattutto, diviene arduo condividere la sensazione di una loro irresistibile capacità di sottomettere gli avversari. Ad un più attento esame della violenza squadrista, la ragione della sua efficacia pare piuttosto ricollegabile a un insieme di fattori concomitanti: la mobilità, grazia al possesso o al noleggio di automezzi; la superiorità numerica rispetto agli avversari; la relativamente più ampia dotazione di armi; l’incapacità o addirittura la complicità della forza pubblica. Nei casi in cui questi elementi non si presentavano tutti insieme e al medesimo momento, allora la presunta irresistibilità della violenza fascista risultava notevolmente attenuata. Quando vi furono scontri “alla pari”, quasi sempre questi ultimi finirono per soccombere (come nel caso degli omicidi dei fascisti Mario Ruini, il 21 gennaio 1921, e di Gino Tabaroni, l’11 novembre 1921). Del tutto singolare è infine la dinamica che determinò la morte di otto fascisti, uccisi dal fuoco delle guardie regie, il 26 settembre 1921[9]. Al culmine di una manifestazione fascista non autorizzata, i militi risposero in maniera spropositata alla provocazione portata da un gruppo di giovani fascisti, che intimarono agli stessi agenti di togliere il cappello per omaggiare il gagliardetto del fascio. Ancora una volta, come era avvenuto il 7 aprile 1920, quando i carabinieri avevano sparato sulla folla, uccidendo almeno cinque lavoratori, a determinare l’evento luttuoso fu soprattutto l’evidente impreparazione delle forze dell’ordine. Dopo una prima fase dominata dagli arditi e dai legionari fiumani, il fascismo modenese si sarebbe modificato in senso più nettamente “borghese”; e anche il profilo dei membri delle squadre d’azione finì per mutare. Le spedizioni iniziarono quindi ad essere animate da giovani e giovanissimi, quasi sempre di estrazione borghese, che non avevano partecipato alla guerra ma ne avevano assorbito la ricca mitologia. Dopo la Marcia su Roma la violenza fascista, che era stata fin lì metodica, divenne episodica e mirata. Tra gli obiettivi v’erano ora soprattutto gli oppositori politici, come dimostrano gli omicidi compiuti nel 1923: a partire da quello dell’anarchico Giovanni Bassoli, deceduto per le conseguenze di un brutale pestaggio.

Fabio Montella


[1] Cfr. G. Muzzioli, Modena, Laterza, Roma-Bari, 1993.
[2] Cfr. L. Bedogni, L’organizzazione e la politica del Partito Comunista nel Modenese (1921-1940), in «Rassegna di storia», n.s., n. 5, 1986; I. Vaccari, I socialisti modenesi nel primo periodo del fascismo, in «Rassegna di storia», n.s., n. 12, 1993, pp. 157-175; A. Osti Guerrazzi, Lotte rivendicative e tensioni rivoluzionarie nell’età liberale (1900-1924), in L. Ganapini (a cura di), Un secolo di sindacato. La camera del Lavoro a Modena nel Novecento, Ediesse, Roma, 2001; A. Osti Guerrazzi, C. Silingardi, Storia del sindacato a Modena. 1880-1990, Ediesse, Roma, 2002.
[3] F. Montella, Bagliori d’incendio. Conflitti politici a Modena e provincia tra guerra di Libia e marcia su Roma, Mimesis, Milano, 2021.
[4] Cfr. M. Degl’Innocenti, F. Della Peruta, A. varni (a cura di), Alfredo Bertesi e la società carpigiana del suo tempo, Mucchi, Modena, 1993; N. Barbieri, La Bassa modenese tra il primo e il secondo conflitto mondiale. Lotta politica e società, s.l., s.e., 2009; C. De Maria, F. Montella (a cura di), Novecento a Carpi. Istituzioni, comunità, impresa, Mc Offset, Modena, 2013.
[5] C. Borghi. La situazione politico-sociale a Modena nel primo dopoguerra e la vittoria socialisya nelle amministrative del 1920, in «Rassegna di storia», n.s., n. 3, 1984.
[6] I. Vaccari, Il sorgere del fascismo nel Modenese, in L. Casali, Movimento operaio e fascismo nell’Emilia-Romagna 1919-1923, Editori Riuniti, Roma, 1973, pp. 247-292; B. Zucchini, Modenesi in camicia nera, edizioni ‘900storia, Modena, 2016.
[7] V. D’Incerti, Carpi fascio della prima ora, L’Ardita, Carpi, 1935; A.M. Rossi, Carpi fascio della prima ora: autorappresentazione dei superfascisti carpigiani, in Istituto Mantovano di Storia Contemporanea, Fascismo e antifascismo nella Valle Padana, Clueb, Bologna, 2007, pp. 161-180.
[8] Cfr. R. Lavini, I cattolici a Modena (1900-1925), Centro studi F.L. Ferrari, Modena, 1978; L. Paganelli, I popolari nel movimento cattolico modenese dal 1919 al 1926, Mucchi e Sias, Modena, 1998.
[9] Cfr. C. Silingardi, L’eccidio del 26 settembre 1921 e la storia dei “martiri fascisti” a Modena, in Istituto Mantovano di Storia Contemporanea, Fascismo e Antifascismo nella Valle Padana, Clueb, Bologna, 2007.