La società di Parma, nel 1919, costituiva un terreno difficile per la nascita del fascismo. La forte identità politica dei quartieri popolari, il vasto sostegno alle organizzazioni operaie, l’eredità lasciata dalla figura di Filippo Corridoni (l’interventismo democratico come lotta di classe), la distanza dal fascismo della borghesia democratica, minavano gli spazi di manovra per il nascente Fascio. Era l’aprile 1919 quando venne fondato il Fascio di Parma, presso la Camera del Lavoro, a seguito dell’iniziativa di varie personalità provenienti da esperienze politiche differenti, ma accomunati dall’interventismo (in prevalenza di sinistra e di ceti medi urbani, come radicali, sindacalisti rivoluzionari e liberali), nelle quali si intrecciavano nazionalismo, dannunzianesimo e fiumanesimo. L’obiettivo dichiarato del Fascio era quello di valorizzare la vittoria italiana conseguita durante la guerra e di unire le componenti dell’interventismo democratico per subentrare alla guida liberale dell’Italia. Tra i promotori del Fascio vi furono Eugenio Lombardelli (mutilato di guerra e segretario alla sezione parmense dei combattenti, corridoniano), Icilio Guatelli e Rinaldo Saletti. Non era strano fossero presenti sindacalisti nel neonato Fascio di Parma: ciò va messo in relazione con la linea di Alceste De Ambris, il quale affermò che i Fasci «rappresentano oggi l’unico movimento politico italiano che contrasti con efficacia e con energia la gretta incapacità delle classi dirigenti ed il demagogismo socialneutralista». L’inizio, per il Fascio di Parma, fu molto complesso. Era privo della sede (ufficialmente si trovava presso lo studio del segretario politico, l’avvocato De Castro), poteva contare su poche risorse economiche ed era privo di un organo di stampa. Nell’estate 1919 era ancora l’unico Fascio della provincia e per tutto il 1919 vennero distribuite solamente quaranta tessere. Anche politicamente aveva scarsa iniziativa, essendo molto debole e si limitava a partecipare alle iniziative delle associazioni combattentistiche.
All’appuntamento delle elezioni dell’autunno 1919, molti Fasci, come quello di Parma, giunsero impreparati. A Parma i fascisti ebbero molte difficoltà nel trovare un collocamento nelle liste, esperienza che dimostrò la necessità di trovare una linea autonoma. A mettere in ulteriore difficoltà il Fascio di Parma vi fu, nel 1920, anche la pessima esperienza del “Comitato pro bambini di Fiume”, nato su iniziativa dei fascisti parmensi. Il Comitato mirava all’accoglienza dei bambini della città dalmata. Però l’iniziativa raccolse ben poche adesioni e creò tensioni con i dirigenti del Comitato centrale (in special modo con il segretario di Parma, Marino Carrara che era stato nominato per guadagnare la simpatia dei corridoniani della Camera del lavoro sindacalista rivoluzionaria) oltre a prosciugare le risorse economiche del Fascio. Emblematica, nella primavera del 1920, la gestione scandalosa dell’inaugurazione del gagliardetto. Rimandata più volte, dimostrò definitivamente la debolezza del quadro dirigente locale, che comportò anche molte dimissioni da parte di decine di soci, dei consiglieri e del segretario Carrara. Parte della stampa locale, specie quella liberale, ironizzò molto sull’evento mancato, tanto da mettere in discussione l’esistenza dei fascisti a Parma. Anche le elezioni amministrative del novembre 1920 dimostrarono che a Parma la vecchia classe dirigente (cattolici, socialisti e liberali) era ancora in grado di rappresentare maggior parte dei cittadini elettori. Fu nel 1921 che si aprì la strada alla corrente più moderata del Fascio, che puntava alla conquista dei ceti medi. Si sperava di intercettare i timori della borghesia urbana, che la corrente rivoluzionaria del movimento operaio di Parma avrebbe spinto nelle braccia del fascismo. Con la segreteria di Vinassa De Regny il Fascio di Parma inaugurò una linea di cautela, nel contrasto alla linea estrema dello squadrismo (che utilizzava la violenza come unico strumento di lotta politica). Ma gli squadristi (non solamente a Parma, ma in tutta l’Emilia-Romagna) puntavano a proseguire la loro linea strategica per condizionare il fascismo anche a costo di uno scontro diretto con Mussolini. Lo squadrismo del parmense, seppur privo di ras dominanti, teneva sotto scacco i dirigenti locali. In special modo Alcide Aimi (capo del fascismo di Busseto) tentava di ricondurre a sé il dissenso squadrista, forte dell’appoggio del ras cremonese, Farinacci (in combutta con uno delle figure di spicco dei liberali di Parma, Luigi Lusignani). A complicare il quadro era il risultato delle elezioni amministrative del 1920, che aveva segnato l’impossibilità da parte dei fascisti di controllare le autorità locali, la resistenza dell’Associazione Agraria di entrare nel modello corporativo fascista (pur appoggiando il fascismo) e il radicalizzarsi del movimento operaio (che nel 1921, anche a Parma si sarebbe organizzato negli Arditi del Popolo): tutto ciò portava ad una forte destabilizzazione, con uno scontro armato sempre più duro e sanguinoso, con la conseguente delegittimazione del gruppo dirigente del partito. Gli squadristi diventavano sempre più forti anche perché le sezioni sindacali fasciste nascevano contestualmente alle azioni fasciste squadristiche e conseguentemente alle sconfitte delle organizzazioni proletarie.
Tutte queste contraddizioni intestine, i forti contrasti interni (dovuti anche alla divisiva presenza di Lusignani), la difficoltà di penetrazione tra la borghesia democratica e la congenita debolezza del Partito a Parma costituivano dei nodi pressocché irrisolti che sarebbero emersi durante i fatti dell’agosto 1922, quando il popolo dei quartieri popolari di Parma eresse barricate per impedire l’irruzione fascista in Oltretorrente e nel Naviglio. Nel settembre del 1922 si tenne un congresso provinciale dei Fasci, che fu l’ennesima conferma delle spaccature e dell’impossibilità di trovare una linea coerente nel Fascio cittadino. Il che portò allo scioglimento dello stesso Fascio. Ad aggravare la situazione furono le decisioni dei due più importanti Fasci della provincia: quello di Busseto, che spingeva per unirsi al Fascio di Piacenza, e quello di Borgo San Donnino (il ras Remo Ranieri), il quale voleva sempre più ritagliarsi uno spazio di autonomia, si staccarono dalla Federazione Provinciale. Le enormi tensioni che emersero dai fatti dell’agosto e del settembre 1922 fecero temere una aggressione squadrista in città. Timori che si spensero nell’ottobre successivo, quando, con la marcia su Roma, il fascismo giunse al potere. Certo non era la fine delle violenze. Nell’inverno 1922-1923 vi furono ripetute sparatorie e scontri armati tra fascisti e antifascisti, in città. Lo stesso Mussolini premeva sul prefetto perché venissero ritirate le armi e sui dirigenti locali fascisti affinché non turbassero l’ordine pubblico. Tra il 1923 e il 1924 furono le squadre fasciste a dominare la scena a Parma, con una repressione fortissima. Molti antifascisti parmensi dovettero abbandonare la scena pubblica. La situazione era per molti ingestibile, tanto che la direzione del PCI sciolse la federazione provinciale di Parma e, nell’agosto del 1923, ne trasferì i compiti a quella di Reggio Emilia. Si può affermare che quella del Fascio di Parma non fu una nascita tranquilla, lineare e coerente. Si potrebbe anche affermare che non fu scontata. Tra il luglio del 1921 e il dicembre del 1925 nella Federazione parmense e nel Fascio della città si contarono una dozzina di segretari, di fiduciari, di commissari straordinari esterni, di triumvirati, di direttori provvisori, di commissioni esecutive con espulsioni, secessioni, occupazioni, scontri intestini e così via. Nonostante in provincia diversi Fasci poterono contare su un forte appoggio degli agrari e su un’efficace distruzione del sindacalismo rosso tramite lo squadrismo, anche nel territorio provinciale rimanevano numerose sacche antifasciste, specie nella Bassa (territorio fortemente socialista) e nell’Appennino (dove forte era l’influenza cattolica). Come scrisse Balbo nell’agosto 1922: «I fascisti locali [sono] pochi: la città è rimasta quasi impermeabile al fascismo: invece nella provincia la conquista fascista è quasi completa. Lo sciopero non poté essere impedito in città, per la debolezza delle nostre forze. Fu, più o meno, generale». A conquistare i rimanenti territori non ancora in loro controllo, i fascisti avrebbero impiegato i primi anni di regime, anche se solamente a seguito delle leggi fascistissime sarebbero riusciti ad attuare un forte controllo sulla società parmense. Ma mai sarebbero riusciti a distruggere l’antifascismo e l’ostilità di quella popolazione che, dopo decenni di militanza politica, dopo i combattimenti sulle barricate avrebbero lasciato un segno nella memoria del movimento operaio urbano di Parma che riemerse pressocché intatto nel 1943-1945.
Rocco Melegari