L’imporsi del fascismo in provincia di Ravenna seguì dinamiche in parte diverse rispetto a quelle delle provincie limitrofe. Non solo si presentò con notevole ritardo, ma rimase a lungo un fenomeno minoritario sia per il numero di adesioni che per la presenza all’interno del dibattito politico locale. Il primo fascio di combattimento della provincia vide la luce a Lugo, nel novembre del 1920; nel capoluogo si dovrà invece attendere il marzo del 1921, quando l’inaugurazione verrà sollecitata e patrocinata dallo stesso Dino Grandi. A partire da questo momento lo squadrismo fece la sua prepotente comparsa nelle cronache, diventando rapidamente il principale protagonista del conflitto politico. Tale centralità fu ovviamente legata all’uso della violenza da parte dei fascisti, come dimostrato dal moltiplicarsi, nel 1921, delle occasioni di scontro, con aggressioni a sedi di partito e spedizioni punitive contro antifascisti. A Ravenna lo squadrismo ravennate uccise la prima persona (1° maggio 1921), e sempre nella città del silenzio si fecero le prove generali – in occasione delle celebrazioni per il centenario dantesco, nel settembre 1921 – per la marcia su Roma[1]. Nel ripercorrere l’evolversi della presa del potere fascista nel ravennate è necessario tenere in considerazione le peculiarità della situazione politica della provincia, caratterizzata dalla durezza dello scontro sociale e della conflittualità politica; inoltre, occorre tenere conto che, per la sua collocazione geografica, confinante con le provincie fascistissime di Ferrara e di Bologna, il fascismo ravennate non poteva non essere fortemente condizionato dal prestigio e dall’influenza di personalità come Dino Grandi e Italo Balbo. Tra le peculiarità del territorio va poi senz’altro considerata la forte presenza locale del Partito repubblicano, da sempre il vero avversario del sovversivismo socialista, al quale poteva anche contendere, seppure declinato in chiave mazziniana, il mito rivoluzionario. Questa radicata presenza costituisce un unicum nel panorama nazionale: forte di una solida tradizione e di un vasto consenso, tanto nella borghesia cittadina come nelle campagne, il Partito repubblicano, facendo proprie anche le rivendicazioni legate alla questione adriatica, assunse appieno il ruolo di baluardo “antibolscevico”. Per questo motivo la conflittualità politica nel dopoguerra ravennate s’inserì nel solco della tradizionale contesa tra repubblicani e socialisti, partiti moderni dotati di struttura organizzative, definite ideologia e radicati sistemi simbolici. E tale eccentrica presenza complicò il radicamento del fascismo, che solo col tempo, anche facendo leva sui comuni riferimenti ideali del nazionalismo e dell’antisocialismo, riuscirà a sfruttare le contraddizioni interne a quel partito. La contesa tra socialisti e repubblicani è però difficilmente comprensibile se non la si riconduce all’accanita competizione tra strutture economiche ben organizzate, in grado di assorbire le fenomenali tensioni sociali del dopoguerra e capaci di veicolarle all’interno di un chiaro progetto politico. Sbaglierebbe però chi interpretasse il rapporto tra partito e struttura economica secondo il paradigma della “cinghia di trasmissione”; al contrario, la capacità del sistema economico e cooperativo di offrire soluzioni ai problemi degli individui rappresentò il principale vettore dell’affermazione delle strutture di partito. Per quel che riguarda il ravennate, è necessario notare come la Federazione delle cooperative – magna pars del socialismo locale – rimase chiaramente attestata, a dispetto della radicalizzazione massimalista in atto nel partito, su posizioni sostanzialmente riformiste; così come è opportuno evidenziare come il presidente Nullo Baldini, sempre presente ai comizi nel 1919, non lasciasse alcuno spazio alle sirene rivoluzionarie, preferendo farsi portavoce della pratica gradualista, di progressiva e riformistica conquista di sempre nuove posizioni di potere. L’influenza del riformismo baldiniano è testimoniata dal fatto che, nonostante la tradizionale conflittualità sociale del territorio, il 1919 sia trascorso relativamente tranquillo, percorso da mobilitazioni – contro il caroviveri e per gli alloggi popolari – che non possono essere considerati, per ampiezza e radicalità, come veri e propri conflitti. La guerra aveva però lasciato una traccia indelebile, come mostra la ferocia polemica tra i partiti rispetto alla scelta interventista del 1915. Su questo tema non vi poteva essere riavvicinamento. Se il Partito repubblicano, forte del protagonismo risorgimentale e del cristallino patriottismo, si confermava come il principale riferimento di un largo campo di forze nazionali, il Partito socialista si confermava un cultore dell’internazionalismo, del desiderio di rivalsa delle classi popolari e della fascinazione prodotta dal mito della rivoluzione. All’indomani della grande vittoria elettorale del 1919, il Partito socialista si trovò stretto tra lo spirito essenzialmente riformista della dirigenza ravennate e l’esasperato massimalismo imposto dalla direzione nazionale. Nel corso del 1920 le tensioni sociali e politiche finirono per esplodere, coinvolgendo anche il territorio del ravennate. E grazie a tale radicalizzazione il gracile fascismo ravennate avrebbe trovato uno spazio entro cui svilupparsi. I primi mesi dell’anno furono segnati da un teso conflitto di lavoro, che lascerà strascichi duraturi nel rapporto tra le due principale centrali cooperative. Si tratta della contesa per la gestione della tenuta agricola Umana, tra Anita e Longastrino. Territorio di recente liberato dalle acque, messo a produzione dalle leghe socialiste, l’ampia tenuta venne venduta dal legittimo proprietario alle leghe repubblicane (le quali, pur non possedendo un numero di iscritti sufficiente a lavorarle, aveva fatto un’offerta economica più vantaggiosa). La risposta dei braccianti socialisti, che occuparono le terre e iniziarono a coltivarle, non avrebbe condotto a nulla; anzi, finì per generare nuove occasioni di scontro. Fino agli episodi del primo maggio 1920, quando due persone vennero gravemente ferite[2]. Non si trattò dell’unico episodio violento del primo maggio 1920. Il fatto più grave si ebbe a Bagnara di Romagna, dove l’occasione offerta dall’inaugurazione della statua dedicata ad Andrea Costa si trasformò in una zuffa tra manifestanti e carabinieri. Alla fine, chi ne fece le spese fu il muratore anarchico Leo Baroncini. Si trattò della prima vittima di natura politica del dopoguerra ravennate, a dispetto dei numerosi feriti prodotti dalle quotidiane risse tra repubblicani e socialisti. Nuove vittime si ebbero a Brisighella, nell’ottobre 1920, quando una manifestazione di protesta per l’arresto di un militante socialista degenerò in un tafferuglio, a cui la forza pubblica rispose sparando. Sul selciato, privi di vita, rimasero, oltre a un bracciante socialista, anche il commissario di pubblica sicurezza Mario Giorgioni[3]. Furono però le elezioni amministrative del 1920 a costituire il vero spartiacque della contesa politica in atto nel territorio. La vittoria socialista in dodici comuni su diciotto, descritta dalla «Romagna Socialista» come un’avanzata trionfale, rappresentò un forte campanello d’allarme, per l’area liberal conservatrice come per il Partito repubblicano. Alcuni episodi dall’alto valore simbolico, come l’esposizione della bandiera rossa in luogo della bandiera nazionale a Bagnacavallo, oppure la proposta di togliere l’effigie del Re dalle pareti del Consiglio comunale a Fusignano, produssero forti proteste da parte dei gruppi nazionalisti locali. Episodi molto gravi contraddistinsero la vita politica a Ravenna, dove lo scontro tra socialisti e repubblicani determinò la morte del giovane militante repubblicano Guglielmo Malatesta. Indebitamente rivendicato dai fascisti quale proprio martire, nel suo nome gli squadristi uccideranno, irrompendo nel carcere di Ravenna, il 31 ottobre 1922, il socialista Gaetano Roncuzzi, riconosciuto colpevole dell’assassinio. Il primo episodio di violenza agito nel Ravennate dalle camicie nere ravennati fu però quello perpetrato a Casola Valsenio. Il 25 febbraio 1921 centinaia di fascisti, per lo più provenienti dalla Toscana, sciamarono per le vie del piccolo centro dell’Appennino, terrorizzando la popolazione e devastando la sede socialista del paese. A partire dal mese di aprile 1921 il fascismo provinciale poté contare sulla voce del settimanale fascista lughese «La Fiaccola»; prima ancora che a Ravenna, dove la «La Santa Milizia» avrebbe dovuto attendere il novembre 1922 per uscire regolarmente in edicola, fu la voce del fascismo lughese a dettare la linea politica, fornendo anche il registro attraverso cui leggere i sempre più numerosi episodi di violenza. Si spiega anche così il rapido crescere della conflittualità, che proprio nel 1921 vide entrata in scena il fascismo quale principale protagonista dello scontro politico. Il primo maggio del 1921 vi fu il primo conflitto tra fascisti e socialisti, che a Ravenna determinò la morte dell’operaio socialista Francesco Segurini[4]. Da questo primo episodio si dispiegò una lunga sequela di lutti, che nel corso di quell’anno provocò undici vittime, alcune delle quali non appartenenti a nessun partito e colpevoli solo di essersi trovate casualmente sul percorso delle spedizioni squadriste. Alcuni comuni furono particolarmente colpiti dalla violenza fascista. Tra questi ci sono Bagnacavallo, dove il 9 agosto 1921 venne ucciso il fratello del sindaco socialista, Massalombarda, spesso presa di mira dalle spedizioni degli squadristi della vicina Imola o della non troppo lontana Ferrara; oppure Lugo, dove l’uccisione di due giovani fascisti, il 10 agosto 1921, offrì l’occasione per scatenare una spietata rappresaglia, con la messa al bando delle principali personalità socialiste e la presa finale del potere locale. A partire da questo momento Lugo si trasformerà nel focolaio di diffusione del fascismo nel Ravennate, anticipando lo stesso capoluogo provinciale. A partire dal 1922 la cronaca si riempì di notizie relative ad assalti a sedi di partito e camere del lavoro, di quotidiane denunce di violenze e di denunce della passività delle forze dell’ordine. Due furono gli episodi più rilevanti della marcia di conquista fascista del territorio ravennate. Il primo fu la cosiddetta “marcia su Ravenna”, compiuta nel settembre del 1921. Anche in questo caso Lugo ebbe un ruolo cruciale, logistico in quanto luogo di concentramento dei fascisti, simbolico per l’omaggio reso alla tomba di Francesco Baracca. Una volta raggiunta Ravenna, dopo avere partecipato alle cerimonie dedicate al centenario dantesco, i fascisti devastarono la locale Camera del lavoro[5]. Il secondo episodio fu la conquista militare della città, realizzata nel luglio del 1922. All’interno di un quadro sociale e politico ampiamente lacerato dalle quotidiane violenze, abbattutesi con particolare forza sui sodalizi e sulle amministrazioni dei borghi posti lungo la via Reale, che unisce Ravenna e Ferrara, il 26 luglio 1922 i fascisti, ancora una volta provenienti da Ferrara e da Bologna, si riversarono su Ravenna. Prendendo come pretesto lo sciopero dei birocciai, e la necessità di difendere la libertà di non aderire dell’appena costituito sindacato fascista di categoria, le camicie nere invasero il capoluogo. Non prima però di essersi accordati con i massimi responsabili del Partito repubblicano, che accettò supinamente il piano d’azione previsto da Italio Balbo. Il risultato dell’occupazione di Ravenna fu tragico: non solo furono date alle fiamme le sedi delle principali organizzazioni socialiste, tra cui la Federazione delle cooperative guidata da Nullo Baldini, ma sul selciato rimasero i cadaveri di undici persone (di cui ben nove appartenenti alle fila dell’antifascismo). La marcia su Ravenna del luglio 1922 assestò il colpo di grazia all’organizzazione socialista. In un crescendo di violenza assassina, caratterizzata in quel solo anno da venti assassini perpetrati dai fascisti, nel giro di pochi mesi tutte le amministrazioni rosse finirono per sciogliersi; innumerevoli furono anche le bastonature e le intimidazioni, così come gli assalti e gli incendi ai sodalizi di partito. Rispetto al passato aumentarono anche gli agguati mirati, con pedinamenti per la strada e assalti delle squadre alle abitazioni private; soprattutto, vittime della violenza fascista iniziarono a cadere anche militanti repubblicani e popolari. A dispetto di questa lunga lista di violenze, il conto pagato dal fascismo fu comparativamente meno pesante: i camerati caduti, contando pure le due camicie nere uccise negli scontri del luglio a Ravenna, furono infatti solamente sei. La rapidità della conquista fu in qualche modo certificata dal risultato plebiscitario ottenuto nelle elezioni amministrative dell’autunno del 1922. Alla voce esultante del Corriere di Romagna e del Resto del Carlino non poté essere opposta alcunché: più volte devastata dagli assalti squadristi La Romagna Socialista aveva infatti chiuso i battenti da tempo. E nessuna voce si sarebbe alzata, neppure per un breve commento in cronaca, quando, nel gennaio del 1923, fu ucciso sulla pubblica piazza di Fusignano l’ex sindaco Battista Emaldi.
Laura Orlandini