All’indomani della Grande Guerra la provincia di Reggio Emilia presentava ancora una struttura produttiva largamente basata sull’agricoltura. Forte di circa 100.000 addetti, quest’ultima era ben articolata dal punto di vista dei rapporti di conduzione. Nell’alta e nella bassa pianura circa la metà delle terre erano affittate, con un terzo di fondi lavorati da piccoli coltivatori e il 12% condotte a mezzadria. Non si distaccava molto la zona collinare, che a larghe linee rispecchiava l’organizzazione produttiva esistente nella pianura. Nella montagna prevaleva invece nettamente la mezzadria, per non parlare dell’esistenza di patti colonici ancor più arcaici[1]. A completare il quadro v’era la presenza di un’estesa rete di cooperative agricole, capillarmente diffusa e quasi sempre legata alla contemporanea presenza delle sezioni del Partito Socialista[2]. Proprio la debolezza della proprietà agraria in terra reggiana, assai meno capace dei vicini modenesi di organizzarsi in forme sufficientemente agguerrite e moderne, avrebbe secondo alcuni autori rappresentato la principale ragione del relativo ritardo dell’affermazione del fascismo locale; e, per converso, dell’assoluto protagonismo, almeno fino alla metà del 1921, dello squadrismo proveniente da località poste al di là dei confini provinciali[3]. A caratterizzare Reggio Emilia era però anche la presenza di un vivace settore secondario, incardinato sullo stabilimento delle Officine Meccaniche Italiane: con migliaia di operai impiegati (tra i 2.000 e i 4.000, a seconda delle fasi storiche e dei cicli produttivi), le Reggiane costituivano infatti, a fronte di una popolazione operaia complessiva di 25.000 unità, il centro produttivo di gran lunga più importante della provincia[4]. Rilevante era però pure il settore terziario, il quale, con il commercio in testa, occupava circa 40.000 addetti. Dal punto di vista politico, occorre rilevare come, già prima della Grande Guerra, una volta palesatasi la debolezza delle vecchie ed elitarie combinazioni liberali, la borghesia urbana avesse non solo sposato l’inevitabilità della scelta clericomoderata, ma lo aveva fatto assumendo gli atteggiamenti più apertamente nazionalisti. Pur rimanendo la vita politica locale dominata dal sistema socialista, già prima del conflitto la borghesia locale aveva sperimentato strategie propagandistiche che la mettevano in grado di confrontarsi con i socialisti sul loro stesso terreno del controllo della piazza; allo stesso tempo, l’adesione sempre più scoperta al nazionalismo ebbe come effetto l’affermarsi di un vigoroso discorso nazionale, impregnato di appelli alla riscossa borghese contro il sovversivismo socialista. Tale reazione parve arrivare con la mobilitazione interventista, quando il palazzo comunale di Reggio Emilia, per tanto tempo simbolo del potere socialista sulla città, fu imbandierato con il tricolore in una piazza affollata di popolo plaudente[5]. Si trattava però di un’illusione, dal momento che, all’indomani della guerra, il Partito Socialista fu in grado di annichilire le opposizioni con la forza dei numeri: quelli relativi all’organizzazione, grazie alle 140 sezioni del 1920 (e più di diecimila tesserati), e quello inerente i voti ottenuti (nella provincia di Reggio Emilia il partito di Prampolini ottenne il 66,1% dei consensi). Storicamente schierato su posizioni riformiste, ben rappresentate dalla figura di Camillo Prampolini, il socialismo reggiano poteva però anche contare su esponenti influenti e agguerriti, del calibro di Giovanni Zibordi, Adelmo Sichel e Amilcare Storchi, che del vecchio nume tutelare condividevano la visione gradualista. A dispetto del prevalere congressuale della corrente massimalista, come della presenza di una federazione giovanile particolarmente inquieta, quel gruppo dirigente avrebbe così continuato a guidare il partito reggiano anche negli anni immediatamente successivi al 1919. La novità principale del panorama politico fu tuttavia rappresentata, all’indomani della guerra, dalla nascita del Partito Popolare, che a Reggio Emilia s’organizzò subito con fervore e attivismo[6]. Come avvenne anche altrove, il partito mostrò però subito quella che avrebbe rappresentato la sua principale debolezza; ovvero, l’esistenza di due anime distinte: quella riformista, che poteva contare sulla presenza di sindacalisti operai; e quella conservatrice, assai più nettamente legata alla presenza dei proprietari terrieri. Estranea a questa contrapposizione, che strutturò la politica reggiana nel primo dopoguerra, almeno fino all’avvento del fascismo, fu invece la figura di Meuccio Ruini. Radicale e nittiano, sottosegretario al Lavoro nel governo Orlando durante la guerra, nelle elezioni del 1919 Ruini aveva guidato le liste di Rinnovamento Nazionale, sulla quale avrebbe in teoria dovuto convergere la preferenza di un ampio bacino sociale (liberali e industriali, agrari e commercianti). A dispetto dell’ampiezza del fronte rappresentato, la lista di Rinnovamento Nazionale in realtà basò la gran parte dei suoi consensi elettorali – il 13,5% – sull’abilità notabilare dei suoi candidati, specialmente nei più sensibili collegi della montagna reggiana. Tra le forze minoritarie, importanti soprattutto in quanto “incubatrici” della sensibilità che si sarebbe poi affermata, possiamo ricordare il Partito Repubblicano, nelle cui fila mossero i primi passi alcuni giovani in seguito tra i fondatori del fascismo locale: Amos Maramotti e Giovanni Dall’Orto, anzitutto[7]. A predisporre il terreno per il radicale mutamento della situazione politica della provincia sarebbero state le dure lotte sociali del 1920. Rispetto alla lunga vertenza agraria di quell’anno, gli avvenimenti non solo dimostrarono forza dell’organizzazione socialista, in grado d’indire scioperi ad oltranza e di imporre il monopolio del collocamento della manodopera, ma evidenziarono la grave debolezza della proprietà agraria. A partire da settembre, come riflesso del grande fenomeno che scuoteva le città del triangolo industriale, la situazione generale fu resa ancora più tesa dall’occupazione delle Officine Reggiane (3-28 settembre 1920). A dispetto del buon risultato sindacale che alla fine s’ottenne, l’occupazione finì per mostrare la condizione di grave divisione esistente a sinistra. Il comportamento moderato della prefettura, ligio alle consegne giolittiane, alimentò poi il senso di frustrazione e di vittimismo del fronte padronale, che avrebbe reso lo stesso più ricettivo nei confronti delle soluzioni estremiste. Si spiega anche così l’atteggiamento di compiaciuta attesa, spesso anche di aperto sostegno, mantenuto da industriali e grossa proprietà agraria nei confronti della reazione fascista. Contemporaneamente, i cittadini della provincia si recavano alle urne per le elezioni amministrative. Il partito di Prampolini ottenne un ultimo e grandioso successo, conquistando quasi tutti i comuni e ottenendo una maggioranza in consiglio provinciale di 35 seggi su 40 totali[8]. In autunno iniziarono però a essere fondati i primi fasci in provincia; a partire da quello di Correggio, subito seguito dal fascio di Reggio[9]. Come era avvenuto anche altrove, nel capoluogo un primo fascio aveva visto la luce già nel 1919; trattato con freddezza dai dirigenti milanesi e travagliato dalle divisioni, questo era però presto fallito. Fu necessario attendere il novembre del 1920 per vedere la fondazione di un secondo fascio, il quale, benché più coeso e coerente, rimase a lungo un organismo debole, in possesso di un’organizzazione politica fragilissima, inesistente dal punto di vista dell’azione squadrista e quasi totalmente dipendente dall’intervento dei camerati delle province confinanti. Non è quindi un caso che il primo grave fatto di sangue sia avvenuto a Correggio, dove i fascisti carpigiani, dopo essersi accampati per qualche settimana nel territorio comunale, il 31 dicembre 1920 uccisero due giovani socialisti: Agostino Zaccarelli e Mario Gasparini. Un altro gravissimo fatto di sangue riguardò Sant’Ilario d’Enza, dove, il 27 febbraio 1921, numerosi fascisti si radunarono per festeggiare la fondazione del fascio locale: nel tentativo di spegnere le fiamme, prodotte dall’inevitabile e per così dire rituale assalto fascista alla locale casa del popolo, sarebbe morto il comandante dei vigili del fuoco. E ancora, l’11 aprile 1921, prendendo a pretesto il ferimento di un militante fascista, fu dato l’assalto la sede della Camera del Lavoro e venne distrutta la redazione del giornale socialista “La Giustizia”. Il 1° maggio del 1921, durante gli scontri scoppiati a Cavriago, degenerati presto in una sparatoria, trovarono la morte due persone; la stessa cosa avvenne qualche giorno dopo, a Luzzara e a Rubiera, dove trovarono la morte Riccardo Siliprandi, Andrea Neviani e Armando Morselli. Sul finire del mese fu ucciso il comunista Ernesto Loschi, a Caldirono di Novellara. L’ondata di violenza fatta registrare in quella difficile primavera, che accanto agli assassini annoverò innumerevoli casi di aggressioni, ferimenti e devastazioni di immobili, si dispiegò nella totale indifferenza delle forze di polizia e nell’assoluta incapacità socialista di organizzare una qualche forma di resistenza. Perché ciò avvenne? Perché l’imponente organizzazione socialista non riuscì a fare altro che lamentarsi? Per spiegare tale circostanza occorre probabilmente rifarsi alla particolare sensibilità del socialismo prampoliniano, fortemente riformista e assai poco predisposta all’idea della rottura violenta dell’esistente. Questa stessa predisposizione, che aveva favorito nel tempo lo stratificarsi dell’influenza socialista sul territorio reggiano, ora condannava il partito di Prampolini all’impotenza. Coerentemente con tale attitudine la federazione reggiana, ferocemente criticata dai vertici nazionali del partito, decise quindi di astenersi dalla partecipazione alla competizione elettorale in occasione delle elezioni politiche del maggio 1921. Forse influì nella scelta presa la volontà di delegittimare un esito che sarebbe stato inevitabilmente inquinato dalle violenze, quel che è certo è il forte rimpianto per l’occasione – forse l’ultima – di offrire una dimostrazione di forza. Nelle circoscrizioni dove il partito era più forte probabilmente si sarebbe riusciti a superare i Blocchi nazionali; come capitò a Guastalla, dove una lista socialista indipendente, presentatasi a dispetto delle disposizioni superiori, andò talmente bene da riuscire a fare eleggere deputato Adelmo Sichel[10]. Della decisione socialista di non partecipare si avvantaggiarono soprattutto i popolari, che in quell’occasione elessero due deputati (Giuseppe Micheli e Giuseppe Casoli), e il Blocco Nazionale, che portò a Montecitorio Michele Terzaghi e Ottavio Corgini. Come già si è accennato, col pretesto della necessità di condurre la lotta elettorale il fascismo aveva duramente attaccato gli uomini e le istituzioni del socialismo reggiano, costringendo alle dimissioni quasi tutte le neoelette amministrazioni socialiste (molte fecero lo stesso subito dopo le elezioni politiche, pochissime resistettero fino all’autunno del 1922). L’inevitabile conseguenza fu la caduta anche del consiglio provinciale, che rassegnò le sue dimissioni il 31 ottobre 1922. All’interno di questa storia di sopraffazione violenta, acceleratasi nel corso della primavera del 1921, una breve illusione fu fornita dalla notizia del “patto di pacificazione”, che i socialisti reggiani accolsero con sollievo e fervore. Ma fu una breve illusione, dopo una sequela di precarie e inconsistenti tregue, le violenze ripresero più intense di prima. Ormai definitivamente sconfitti, i capi del socialismo reggiano si trovarono costretti a chiedere il permesso anche per festeggiare la loro più importante ricorrenza. Al chiuso del teatro Ariosto, per benevola concessione fascista, che nello stesso momento teneva una grande manifestazione la vicina piazza Vittorio Emanuele, i socialisti reggiani celebrarono mestamente il 1° maggio 1922. L’ultima dimostrazione di vitalità socialista avrebbe coinciso con il cosiddetto sciopero legalitario, che nella provincia di Reggio Emilia riscosse un buon successo. Forse perché i fascisti stavano organizzandosi per ben altre imprese. Nei giorni della marcia su Roma, le squadracce della provincia si radunarono infatti nel capoluogo; seguendo il piano stilato dal “comitato segreto”, che si era costituitosi nei giorni dello sciopero legalitario, le stesse occuparono poi l’intera città. Non solo fu imposto alla prefettura di esporre il gagliardetto fascista, ma venne presa la stazione ferroviaria, il palazzo delle poste e altri edifici pubblici. Non era però ancora finita. Benché ormai al potere, grazie alla presenza di Mussolini alla presidenza del Consiglio, gli squadristi si resero protagonisti di una lunga sequela di fatti di sangue, che nel solo 1922 provocarono ben dieci vittime. Contemporaneamente, dimostrando ben maggiore risolutezza che non i socialisti, le squadre smantellarono dalle fondamenta quella che era stata una potente, temuta e ammirata rete di organizzazioni, sodalizi e “contromondi” popolari.

Fabrizio Solieri


[1] Cfr. M. Paterlini, L’economia reggiana dalla marcia su Roma alla crisi del 1929, in «Ricerche Storiche», nn. 38-39, 1979; A. Balletti, Storia di Reggio nell’Emilia. Seconda parte 1859/1922, Diabasis, Reggio Emilia, 1996.
[2] Sulla forza del socialismo reggiano cfr. A. Zavaroni, La linea, la sezione, il circolo: l’organizzazione socialista reggiana dalle origini al fascismo, Quorum, Reggio Emilia, 1990; S. Bianciardi, Camillo Prampolini costruttore di socialismo, il Mulino, Bologna, 2012; L. Cavazzoli (a cura di), Giovanni Zibordi: le idee e l’opera di un riformista, Lacaita, Manduria, 2012.
[3] Per un’intensa riflessione sui limiti del notabilato liberale reggiano cfr. A. Ferraboschi, Le trasformazioni del notabilato. Dalla rappresentanza sociale alla intermediazione politica, in «Ricerche Storiche», n. 73, 1993, pp. 207-221.
[4] Cfr. M. Bellelli, Reggiane: cronache di una grande fabbrica italiana, Aliberti, Correggio, 2016; G. Magnanini, Gli operai delle Reggiane contro il regime fascista e nella lotta di Liberazione (1921-1945), Litosei, Rastignano, 2011.
[5] Cfr. A. Ferraboschi, La nazione nella patria del “socialismo integrale”. Irredentismo e nazionalismo a Reggio Emilia dalla “grande armata” alla grande guerra (1904-1915), in Piccola Patria, Grande Guerra. La Prima Guerra Mondiale a Reggio Emilia, a cura di M. Carrattieri, A. Ferraboschi, Clueb, Bologna, 2008, pp. 19-74.
[6] Cfr. C. Grazioli, Il movimento cattolico reggiano dal primo dopoguerra al regime fascista, in «Ricerche Storiche», n.46, 1982.
[7] Cfr. G. Laghi, Il Partito repubblicano a Reggio Emilia dal 1919 al 1945, in «Ricerche Storiche», n.7-8, 1969.
[8] Sulla situazione politica reggiana nel dopoguerra cfr. M. Carrattieri, Il tricolore tra bandiere rosse e camicie nere. Il nazionalismo a Reggio dal dopoguerra al regime (1915-1925), in Piccola Patria, Grande Guerra, cit., pp. 75-164.
[9] Cfr. U. Gualazzini, La genesi del fascismo reggiano, Reggio Emilia, 1936; R. Cavandoli, Le origini del fascismo a Reggio Emilia, Editori Riuniti, Roma, 1972; M. Storchi, Il fascismo reggiano fra nascita e impero (1922-1937), Cesena, 1998.
[10] Per un profilo di Adelmo Sichel, sindaco di Guastalla e Presidente del Consiglio Provinciale di Reggio Emilia, nonché deputato socialista dal 1897 al 1919, cfr. N. Odescalchi, Un amministratore locale esemplare: Adelmo Sichel nella Guastalla di fine Ottocento, in G. Boccolari, L. Casali (a cura di), Camillo Prampolini e il socialismo reggiano, Atti del convegno di Reggio Emilia del novembre 1993, in «Almanacco», n. 37, 2001, pp. 273-310.