Situato allo sbocco della Valmarecchia, non troppo lontano dal Montefeltro e dalle Marche, il territorio di Rimini rappresenta l’estremo limite meridionale della Valle Padana. Pur trovandosi ancora in pianura, circondata da basse e fertili colline, la storia della città ha però seguito percorsi alternativi a quelli di molti centri vicini. Per secoli legata alla presenza di un attivo porto da pesca, così come di un piccolo ma assai prospero circondario agricolo, l’identità contemporanea del riminese, ricollegandosi all’antico passato romano, quando la città costitutiva uno snodo cruciale del sistema di comunicazione imperiale, si è organizzata attorno all’arrivo della ferrovia (1861) e, conseguentemente, all’affermazione di una fiorentissima industria del turismo[1]. Parallelamente anche la geografia politica del territorio s’organizzò seguendo peculiari coordinate, tali da renderla assomigliante al modello marchigiano assai più che alla configurazione esistente nel forlivese. Si spiega anche così, accanto al peso tutto sommato limitato qui avuto dal repubblicanesimo[2], la persistente vivacità dei nuclei anarchici e sindacalisti. Se in città le roccaforti libertarie corrispondevano ai quartieri di Borgo San Giuliano e Borgo Marina, fuori dalle mura urbane s’organizzavano attorno ai poli di Cattolica e di Riccione. Su questo territorio in equilibrio, condizionato dalla presenza di più forze politiche e numerosi gruppi portatori di specifici interessi economico-sociali, s’abbatté la Prima guerra mondiale. Pur non arrecando gravi danni dal punto di vista materiale, le conseguenze negative della guerra s’aggiunsero ai terribili danneggiamenti del doppio sisma del 1916. Non stupisce quindi che, al termine del conflitto il riminese si trovasse in condizioni critiche, flagellato dalla disoccupazione. Ad aggravare la situazione era poi lo stato miserevole delle finanze pubbliche, ormai prossime al collasso, nonché il clima di esasperata contrapposizione politica tra i partiti. Inizialmente uniti all’interno di un solo fronte rivoluzionario, anche il legame tra anarchici e socialisti, logorato dal continuo traccheggiare dei socialisti, alla fine si sciolse[3]. A completare la ricostruzione del quadro politico esistente si deve segnalare l’affermazione del nuovo Partito Popolare e il definitivo eclissarsi del notabilato liberale. Nell’indifferenza generale, specchio fedele delle gigantesche difficoltà incontrate, si sviluppò, non superando l’ottobre del 1919, l’attività politica del primo fascio riminese[4]. Tra il 1919 e il 1921, quindi, l’unico partito in grado di sostenere la competizione con i socialisti fu il partito popolare, che non solo disponeva di autonome strutture sindacali, adatte alla rappresentanza degli interessi contadini, ma parlava un linguaggio patriottico simile a quello parlato dal variegato mondo combattentista. Tra socialisti e popolari si sviluppò quindi una vivace conflittualità, che trovò il luogo di massima espressione nell’entroterra agricolo del circondario; nei paesi del litorale adriatico le violenze furono invece legate all’estrema diffusione del sentimento di ribellismo, che alimentato dall’ideologia anarchica s’indirizzava in genere contro le forze dell’ordine. Anche se dotata di minore intensità rispetto ad altre province, anche nel riminese la violenza politica si fece dunque protagonista dell’immediato dopoguerra. All’inizio poté confondersi con la tradizionale conflittualità sociale, che nel contesto locale assumeva spesso la coloritura di un generico sovversivismo. Come accadde a Cattolica, dove, a causa dell’uccisione del ventenne Giovanni Vico, fu linciato il carabiniere Giovanni Battistini Rizzieri (4 aprile 1920). Qualche settimana dopo, a Borgo San Giuliano alcuni sconosciuti esplosero numerosi colpi di fucile contro i carabinieri, che lamentarono il ferimento di un tenente, due brigadieri e un milite. La medesima inquietudine si respirava nell’entroterra, dove erano frequenti le zuffe tra i militanti dei differenti partiti. Rispetto a quel che avveniva nelle zone vicine, nel riminese la rappresentanza dei ceti contadini, stante l’estrema debolezza repubblicana, era una questione che riguardava quasi solamente i socialisti e i cattolici; così, a dispetto del fatto che i due partiti si ritrovassero spesso affiancati nella conduzione delle vertenze agrarie, la conflittualità tra di loro provocava continui scontri[5]. A questo proposito, il fatto più grave avvenne a Montalbano di Sant’Arcangelo, dove lo scontro tra militanti popolari e socialisti portò all’uccisione di Guido Cesarini, organizzatore della locale Fratellanza colonica (4 aprile 1920). L’esito delle elezioni amministrative del 1920 complicò la situazione politica locale. Il grande trionfo socialista, non compensato dal buon risultato delle liste cattoliche, incrinò la convinzione che si potesse assecondarne l’azione politica. I due partiti, in forte polemica per le scelte compiute dalle giunte socialiste, iniziarono quindi ad allontanarsi; e, parallelamente, si produsse un primo avvicinamento all’intransigentismo fascista. All’interno di questo sempre più sfilacciato contesto politico il fascio riminese venne rifondato (24 marzo 1921). A dispetto dei proclami roboanti, la sua vita sarebbe però stata stentata; tanto da non superare mai, almeno fino alla marcia su Roma, la cinquantina di iscritti. La lunga campagna elettorale della primavera del 1921 si rivelò però fondamentale per offrire un compito alla nuova formazione, che molto si giovò del capitale di legittimazione offerto dall’eco delle imprese realizzate dai camerati nelle altre province. Gli impegni di propaganda, con l’arrivo dei candidati fascisti del Blocco nazionale, inevitabilmente accompagnati da squadre di camice nere bolognesi o ferraresi, non solo permisero di stringere rapporti più stretti con quei camerati, ma offrirono fondamentali modelli d’azione. Una volta chiusa la campagna elettorale i fascisti rimpiombarono però nell’irrilevanza politica, in qualche modo certificata dal fatto che gli episodi violenti più importanti – l’omicidio di Carlo Bosi, avvenuto l’11 maggio 1921, e quello di Luigi Platania, consumatosi il 19 maggio 1921 – non li ebbero quali protagonisti (se non nel ruolo di vittime). L’assassinio di Platania mise però in moto un processo esogeno, caratterizzato dall’invasione del territorio riminese da parte delle camicie nere delle provincie confinanti. Il 22 maggio 1921 centinaia di squadristi, per lo più provenienti da Bologna, si riversarono sulla città, devastando le sedi delle organizzazioni di sinistra, bastonando i passanti e terrorizzando l’intera collettività. Due giorni dopo, di ritorno a Bologna dalla funzione funebre, alcuni fascisti spararono sulla folla nei pressi di Santa Giustina: tre contadini rimasero uccisi, altre dieci persone dovettero essere portare ferite in ospedale[6]. Oltre a riavvicinare i partiti di sinistra, l’eccidio produsse all’interno del mondo cattolico un ripensamento della politica di simpatia fin lì seguita nei confronti del fascismo; in particolare, nel giro di quale settimana la sinistra interna di Giuseppe Babbi riuscì a imporsi sull’orientamento conservatore, rappresentato dall’ex cappellano militare Secondo Garattoni. La disponibilità popolare non fu però colta dall’estrema sinistra riminese, che al contrario, decidendo di dare vita a squadre di arditi del popolo, finì per accentuare la propria condizione di isolamento politico. La prospettiva di popolani armati, scorrazzanti per le strade della città, con tanto di bracciale rosso e voglia di rivalsa, risvegliò tutta una serie di vecchi fantasmi nella borghesia cittadina, che tornò a guardare al fascismo con simpatia, quale indispensabile baluardo antisovversivo. In tal modo, anche a Rimini, nonostante l’oggettiva sua debolezza, il fascismo divenne un interlocutore del fronte conservatore. Quest’ultimo aveva del resto deciso, indipendentemente dalla forza che i fascisti sarebbero riusciti a fornire, di imboccare la via della dura contrapposizione alle forze popolari, da sviluppare attorno alla risoluzione del nodo del patto colonico firmato nel 1920 (che gli agrari ritenevano iniquo, in quanto strappato «nel momento della più accesa azione estremista»[7]). Non dovettero aspettare a lungo. Quando nel giugno del 1922 la Camera del lavoro ordinò l’arresto dei lavori di trebbiatura, l’Unione Agraria riminese, perfettamente cosciente dello stato di difficoltà delle organizzazioni socialiste, ritenne fosse giunto il momento di «rovesciare del tutto la situazione»[8]. Appoggiandosi ai fascisti, che negli stessi giorni invadevano il capoluogo, il conte Zavagli annunciò allora che «l’Associazione Agraria non faceva ormai più questione di diritto, bensì di forza»[9]. Al termine di un’estate punteggiata di aggressioni e intimidazioni, contro contadini e operai iscritti alle leghe, gli agrari resero noto che, a partire da quel momento, avrebbero riconosciuto quali interlocutori i soli sindacati nazionali fascisti. Il fascio riminese sembrava insomma essere finalmente riuscito a conquistare una posizione di rilievo, come testimoniato dall’uscita, il 10 luglio 1922, del primo numero del periodico La Penna fascista. Allo stesso modo, l’avvio di una nuova fase nell’esistenza del locale fascismo coincise l’espansione al di fuori delle mura del capoluogo. Se a Morciano fu decisivo l’aiuto offerto da alcuni proprietari agrari, a Cattolica i fascisti dimostrarono di sapere manipolare gli umori repubblicaneggianti dei tanti marinai del luogo. Da questi due primi avamposti il fascismo si mosse poi verso la Valconca e la Valmarecchia[10], quindi lungo il litorale in direzione di Riccione[11]. Il clima politico si stava facendo quindi sempre più teso, inquinato dall’espansione nel circondario dei fascisti riminesi e dalla difficoltà – per la paura della ritorsione che i camerati delle province vicine avrebbero immediatamente scatenato – di opporre una qualsiasi resistenza attiva. Ai partiti popolari erano già rimaste scarsissime occasioni di espressione: il congresso dei contadini della Valconca del 23 aprile, gli affollati comizi unitari del primo maggio e infine l’adunanza del 10 giugno 1922, organizzata dal Partito socialista in occasione dei funerali di Libero Zanardi. A sancire la sconfitta, improvvisa e senza apparente possibilità di ripresa, furono le dimissioni della giunta comunale del capoluogo (6 luglio 1922) e la chiusura di Germinal, organo ufficiale della Federazione provinciale socialista (8 luglio 1922). Il crollo fu accompagnato da uno stillicidio di aggressioni fasciste, non solo ai danni di dirigenti e sindacalisti. Nel corso di una di queste improvvisate e violentissime bastonature avrebbe trovato la morte anche una giovane ragazza: Olga Bondi, uccisa dai picchiatori fascisti in Borgo San Giovanni. Alla fine dell’estate del 1922, con l’opposizione sovversiva ormai completamente disarticolata, avendo i cattolici ormai definitivamente accettato il ruolo di fiancheggiatori e dopo avere conquistato la simpatia dei ceti medi urbani, i fascisti riminesi potevano considerarsi come i veri e soli padroni del campo. La definitiva conquista del circondario si sarebbe però realizzata qualche settimana più tardi. Il 28 ottobre 1922, in concomitanza con la marcia su Roma, la città fu invasa dalle camicie nere. Queste occuparono tutti gli edifici pubblici, ottenendo dal sottoprefetto la remissione dei poteri nelle mani del comandante del presidio militare. Dopo avere assaltato le carceri di Castel Sigismondo, dove trovò la morte il fascista Mario Zaccheroni, il terzo giorno di occupazione una squadra occupò il palazzo comunale. Ludovico Pugliesi, senza attendere alcuna investitura ufficiale, s’insediò a quel punto come commissario prefettizio della città. Forti della protezione offerta dalle forze dell’ordine, nelle settimane successive i fascisti completarono la conquista del territorio, devastando le sedi dei sodalizi socialisti e popolari; poi si dedicarono all’abbattimento di tutte le giunte comunali rimaste in mano socialista del circondario. C’era voluto molto tempo, ma anche a Rimini il fascismo aveva imposto la sua dura legge.

Filippo Espinoza


[1] Cfr. A. Varni, V. Zamagni (a cura di), Economia e società a Rimini tra ‘800 e ‘900. Studi pubblicati in occasione del 150° anniversario della Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini, Cassa di Risparmio di Rimini, Rimini, 1992; G. Gattei, Bagni e guerre (1914-1944), in Storia di Rimini dal 1800 ai giorni nostri, vol. II, Lo sviluppo economico e sociale, Ghigi, Rimini, 1981.
[2] A testimoniare le difficoltà repubblicane a Rimini v’è il rapido fallimento del giornale La voce di lavoratori, fondato in occasione delle elezioni amministrative del 1920 e irregolarmente pubblicato per appena tre mesi.
[3]  Sull’organizzazione delle forze di sinistra nel Riminese cfr. L. Faenza, Comunismo e cattolicesimo in una parrocchia di campagna, Feltrinelli, Milano, 1959; Id., Socialismo riminese 1871-1988: una microstoria, Sapignoli, Torriana, 1989; G. Giovagnoli, Storia del Partito comunista nel riminese. 1921-1940. Origini, lotte e iniziative politiche, Maggioli, Rimini, 1981; W. Zanotti, Romagna rossa. Dalla democrazia liberale al regime fascista (1919-1926), Il Ponte Vecchio, Cesena, 1996.
[4] Sull’impiantarsi del fascismo a Rimini cfr. O. Cavallari, All’arme siamo fascisti! Rimini in camicia nera (1910-1924), ELSA, Rimini, 1977; P.G. Grassi, Fascisti e socialisti a Rimini nelle relazioni del Prefetto di Forlì (1921-1922), in «Storie e storia», n. 2, ottobre 1979; P. Meldini, Penetrazione e consolidamento del fascismo, in P.G. Pasini, S. Pivato (a cura di), Natura e cultura nella Valle Conca, Biblioteca comunale di Cattolica-Cassa di Risparmio di Rimini, Rimini, 1982; C. Urbinati, Il PNF a Rimini, in «Memoria e Ricerca», n. 4, 1994, 143-192; M. Casadei, Coriano. Il fascismo e la guerra, Comune di Coriano, Rimini, 1994; M. Masini, Rimini, a noi!, Edizioni Chiamami Città, Rimini, 1998; Id., Rimini dal Primo dopoguerra alla Liberazione, in P. Dogliani (a cura di), Romagna tra fascismo e antifascismo (1919-1945): il Forlivese-Cesenate e il Riminese, Clueb, Bologna, 2006.
[5] Cfr. C. Catolfi, Terra, proprietà, mondo contadino, in A. Varni, V. Zamagni (a cura di), Economia e società a Rimini tra ‘800 e ‘900; cit., p. 315.
[6]  Cfr. F. Lombardini, L’eccidio di Santa Giustina, 22 maggio 1921, dattiloscritto, 1982; M. Franzinelli, Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza fascista. 1919-1922, Mondadori, Milano, 2003, p. 191 e 334.
[7]  P.G. Grassi, Dagli intransigenti ai popolari: il movimento cattolico a Rimini (1870-1926), Ghigi, Rimini, 1979, p. 32.
[8]  Ivi, p. 42.
[9] P, Meldini, Penetrazione e consolidamento del fascismo, cit., pp. 334-334.
[10]   La zona del riminese che offrì maggiore resistenza alla penetrazione fascista fu la bassa Valconca, dove anarchici e comunisti erano da tempo ben radicati; anche nel santarcangiolese le camicie nere avrebbero trovato una certa resistenza. L’ultima roccaforte rossa a cadere sarebbe stata Coriano, che la stampa fascista descriveva come un territorio «infeudato di pelli-rosse». («La Penna fascista», 2 ottobre 1922).
[11] Nella città rivierasca i fascisti seppero inserirsi all’interno del gioco politico locale, sfruttando la contemporanea agitazione popolare per l’elevazione del centro al rango di Municipio.