Il fascismo nacque a Milano, ma divenne adulto in Emilia-Romagna. Furono infatti la determinazione e la mancanza di scrupoli rispetto all’uso della violenza a imporre il movimento delle camicie nere quale riferimento obbligato della lotta antibolscevica.
Solo utilizzando la violenza si poteva del resto restituire alle tradizionali classi dirigenti il controllo della regione. Terra di precoce insediamento dei partiti politici, l’Emilia-Romagna stava infatti vivendo, in virtù dell’intensa mobilitazione popolare innescata dalla protesta contro la guerra, un periodo di straordinario sviluppo politico. A rappresentare tale fenomeno, d’irruzione sulla scena delle masse rurali e proletarie, erano soprattutto due partiti: il partito socialista e il partito popolare. Benché divisi quasi su ogni argomento, entrambi erano però consapevoli della centralità della dimensione locale, fondamentale sia per dimostrare la coerenza dell’agire che per dare consistenza al radicamento territoriale. La stessa consapevolezza avevano però anche le classi dirigenti tradizionali, che non a caso incoraggiarono, incapaci di riconquistare attraverso il voto quelle stesse amministrazioni, la più violenta e bieca reazione squadrista. Per quanto sia da tempo nota l’importanza della questione, non foss’altro perché la data d’avvio dello squadrismo è tradizionalmente collegata con l’assalto a Palazzo d’Accursio a Bologna, non esiste oggi uno studio specifico sull’ampiezza della vittoria elettorale socialista (e popolare) dell’autunno 1920; così come assai poco sappiamo del loro operato, sia rispetto agli innumerevoli condizionamenti che dovettero fronteggiare che in relazione ai risultati alla fine ottenuti. Perché se è vero che molte amministrazioni non furono in grado di sviluppare una iniziativa politica di classe economicamente sostenibile, è pur vero che molte altre giunte seppero dimostrare grandi doti di equilibrio, sia sul lato del bilancio che su quello dei valori progettuali. Ne consegue che anche l’azione contro le amministrazioni comunali, fin qui troppo facilmente rubricata quale generica forma di violenza fascista, merita di essere riconsiderata per quello che effettivamente fu: ovvero, il perno di una strategia volta a negare ogni “agibilità politica” ai partiti di massa. Se la distruzione di una sede cooperativa o di partito poteva infatti essere letta come una degenerazione della lotta tra partiti, da trattare attraverso gli strumenti propri dell’ordine pubblico e della sua tutela, il forzato scioglimento di un’amministrazione regolarmente eletta aveva invece a che fare con il disconoscimento della legittimità di una parte politica. L’accettazione di ciò da parte delle istituzioni liberali significava anche accettare in toto la visione fascista, che identificava gli avversari politici come nemici, non appartenenti alla comunità nazionale e quindi privi di ogni diritto di rappresentanza politica. Ecco allora che si comprende meglio la scansione temporale degli assalti fascisti alle municipalità rosse, che si concentra a ridosso della conquista finale del potere; in una fase cioè caratterizzata dall’ampio e generalizzato cedimento delle istituzioni liberali nei confronti della pretesa fascista di rappresentare interamente e senza divisioni la nazione. Partendo dalla convinzione che il nodo della rappresentanza, territoriale e nazionale, costituisca un fattore esplicativo di prima importanza, in grado di legare i temi della violenza, del radicamento politico territoriale e della “reazione” squadrista, gli studiosi coinvolti nel progetto si sono concentrati nel recupero dei dati elettorali, relativi alle elezioni politiche ed amministrative. Si tratta di un lavoro certosino e prezioso, fondamentale per consentire una rinnovata lettura delle ragioni dell’affermazione fascista in Emilia-Romagna.
Andrea Baravelli